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Centochiodi

Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film

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La recensione su Centochiodi

di scandoniano
4 stelle

Il regista del film, Ermanno Olmi, l’ha annunciato come il suo ultimo in carriera (manco se i cineasti andassero in pensione). Forse per un maggiore successo al botteghino (che difatti c’è stato), forse perché voleva un film che fosse il suo testamento, questo “Centochiodi” è una pellicola che affronta tematiche importanti con una disarmante semplicità. Ci dice, senza molti fronzoli ma senza tradire quel tratto signorile propria della sua poetica, che la fede non combacia con la religione, che la purezza predicata un tempo dal Messia oggi non è altro che un valore ritenuto anacronistico, che il sapere dei libri non è la vita, che invece si coltiva quotidianamente assieme agli altri. Questi messaggi però sono veicolati in maniera talmente didascalica da risultare stucchevole: non basta l’incipit, né la frase del prete spretato per cui “C’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri”, o la fisionomia del protagonista: Olmi ci mette pure i pescatori, un’improvvisata mangiatoia (che, si ricorda, si costruisce su solide basi), le parabole  e i miracoli. Il messaggio era chiaro anche dopo 15 minuti di film: perché non farne un semplice cortometraggio?

A questi problemi contenutistici piuttosto evidenti, si aggiunge altresì un’estetica a dir poco sciatta. Olmi si affida a maestranze che non sono in grado di tenere il suo passo: la fotografia è piatta e smunta, la recitazione pessima: il fatto che il protagonista, Raz Degan, non sia un attore, forse ha indotto Olmi a contornarlo di attori ancora meno professionisti di lui per farne spiccare la recitazione: il risultato è una prova attoriale da filmino amatoriale.

Del film rimangono l’alterosclerotico didascalismo, l’insistito misticismo moralistico che declina talvolta fino alla ridicolaggine, il manicheismo esasperato di cui il film è completamente intriso, ma soprattutto l’idea che se doveva essere questo il testamento professionale del regista de “L’albero degli zoccoli”, male non avrebbe fatto a fermarsi  prima. Se tuttavia l’avesse fatto, non avremmo assistito ad una delle scene più suggestive mai viste al cinema, quella iniziale, che dà senso al titolo (di cui rimane a tutt’oggi il mistero delle due “c” in corsivo).

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