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Il grande capo

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Il grande capo

di logos
8 stelle

Certo che rivedendo ora questa stravagante commedia, giudicata cerebrale, non so fino a che punto non si debba invece considerarla quanto mai concreta, visto che nel frattempo il capitale globale, tematizzato in quest’opera, è diventato sempre più astratto e cerebrale, fino a essere provocatoriamente invisibile nella sua pervasiva presenza volatile e imperiale.

 

In gioco infatti non è soltanto il mondo del lavoro, con le sue narrazioni di sfruttamento e ingiustizie sociali che più che mai lo caratterizzato, ma anche le forme perverse che esse assumono nella new economy, nelle quali, dietro un “stai sereno” e una pacca sulla spalla, si celano le macchinazioni più assurde per tagliare forza-lavoro.

 

Il macrosistema economico che qui viene bersagliato è rappresentato dalle dinamiche che si vengono a creare tra i dipendenti di una società informatica danese che sta per essere venduta a una compagnia islandese. La qualità dei rapporti è tutta centrata sulla collaborazione amichevole, i fondatori storici della piccola società informatica hanno un rapporto alla pari, al punto che lo stesso proprietario, che per trarre profitto vuole cederla, in realtà si è sempre spacciato come un dipendente, pari tra i pari. Fattosi prestare il denaro per motivi personali da ciascuno dei suoi “colleghi” ha istituito la società medesima, nella quale tutti lavorano e anche lui si fa passare come dipendente nella stessa misura, attribuendo le decisioni negative sul personale a un fantomatico grande capo che ha sede in America, mentre in realtà è tutto frutto della sua celata strategia. Siccome il capo ora vuole cedere la proprietà, il nuovo acquirente vuole parlare direttamente con il proprietario, ma per continuare a fingere di essere un dipendente escogita il piano che a rappresentare in carne e ossa il proprietario sia un attore, il quale dovrà dunque recitare la parte del grande capo, proveniente direttamente dalla sede legale americana. Ma l’attore non è del tutto in sintonia morale con il personaggio che deve interpretare, anche perché entrando in relazione con i dipendenti scopre che vi sono dei vissuti e delle storie fatte di sudore, fatiche e sofferenze, perciò inizia a interpretare la parte di un grande capo comprensivo, le cui decisioni non sono autonome come si presume, ma dipendono da un capo superiore, il grande capo del grande capo.

 

E così in questo rimando di verità e finzione, in cui viene messo in questione il rapporto tra personaggio e attore, tra cinema e realtà, tra cinema e cinema sul cinema, si ha tutto un gioco di specchi e di rinvii in cui alla fine non si sa più se a dirigere le fila sia la realtà o la finzione stessa; ma tutto questo è possibile non per un artificio del regista Lars Trier, ma per il semplice fatto che è la stessa new economy a funzionare in questo modo, perché quel che conta non è il processo di produzione materiale, ma l’immaterialità astratta del marketing nel suo circolo di astrazioni reificate del capitale, che diventa quello spettro sempre più evasivo e quanto mai potente in grado di decidere le sorti della forza lavoro con un tratto di penna, senza che possa essere individuato il vero responsabile delle decisioni prese sulle teste dei lavoratori, perché su quelle teste non vi è più alcuna autorità tangibile, ma soltanto l’astrazione, che governa in modo automatico e perfetto perché è il mondo stesso ad essere capovolto, al punto che lo si può riprendere benissimo con l’automavision, che oltrettutto sottolinea, in modo ancor più grottesco, che la casualità che  che ne scaturisce non è altro che la necessità di questo capovolgimento dell’astratto sul concreto.

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