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La diabolica invenzione

Regia di Karel Zeman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La diabolica invenzione

di spopola
8 stelle

Il libro da cui trae spunto (abbastanza liberamente) questo straordinario film di Karel Zeman del 1958 (del quale sembra che da un po’ di tempo si siano smarrite le tracce), è uno dei meno noti fra i tanti romanzi nati dall’immaginazione di Jules Verne (Di fronte alla bandiera), ma ci sono riferimenti tangibili mutuati anche da altre sue opere più  conosciute, come per esempio Ventimila leghe sotto i mari.
La storia è quella di un famoso e vecchio scienziato che viene rapito assieme al suo assistente, ad opera di una banda di pirati, che intende avvalersi di lui e delle sue scoperte per dominare l’intero mondo civile. L’ingenuo e utopico professore, il cui obiettivo principale è quello di avere la possibilità di poter disporre dei mezzi sufficienti per continuare le proprie ricerche, crede di trovarsi di fronte  dei generosi mecenati e fiduciosamente, nonostante le premesse che dovrebbero farlo riflettere, “appassionatamente” e senza porsi troppe domande, continuerà il proprio lavoro con totale dedizione, fino a portare a termine l’eccezionale invenzione di una nuova fonte di energia di potenza illimitata (una specie di “materia esplosiva” che potremmo facilmente identificare in quella “nucleare”). Solo a lavoro concluso si accorgerà che i malviventi vogliono usare la sua straordinaria scoperta non per scopi benefici, o per ragioni umanitarie di universale interesse, ma bensì per terrorizzare tutti i governi della terra ed asservirli alle proprie volontà. Allo scienziato, messo così di fronte alle proprie responsabilità, non rimarrà allora altra scelta che quella di distruggere l’opera alla quale ha dedicato tutta la sua vita. E una immane esplosione farà saltare in aria il covo sottomarino dei  banditi disperdendo anche le tracce della ricerca e del risultato conseguito. Lo scienziato morirà ovviamente nell’esplosione, unitamente al manipolo dei malvagi. Dalla catastrofe, si salverà soltanto il suo assistente che riuscirà a fuggire prima dell’ecatombe generale insieme a Jana (una ragazza scampata a un naufragio) e che avrà il compito di avvertire il mondo del “pericolo” ormai (forse) scongiurato.
Lo splendore formale dell’opera è davvero opulento (ma ne parleremo dopo). Prima, mi preme soffermami sulla modernità dell’assunto di questo apologo che evidenzia con assoluto rigore e intenso coinvolgimento “personale”, un problema che già in quegli anni era molto sentito:  il fallimento della scienza utopica e “disinteressata”, e la conseguente “tragica” fine  del ricercatore “puro” (che non aveva più spazi per essere un semplice idealista), sempre così assorto nei sui studi, da essere incapace di comprendere (prevedere) se le conquiste del suo ingegno (spesso bivalenti)  potevano poi davvero essere utilizzate a vantaggio dell’uomo, o se invece non  sarebbero state adoperate “malamente”,  concorrendo così  ad “accelerarne” la sua distruzione.  Nella sua semplicità, dunque, la vicenda narrata  che va ben “oltre l’avventura” (che rimane ovviamente un elemento comunque importante e prioritario), intende mettere in primo piano un dramma controverso e di primaria importanza che è poi quello dello scienziato borghese moderno che ritiene (a torto) di potersi considerare al di sopra delle parti, mantenendosi estraneo alle passioni, all’impegno politico e persino alle speculazioni finanziarie, finendo in questo modo però per farsi involontario complice (nel fornire gli strumenti operativi che il suo ingegno ha messo a punto) dei più aberranti disegni di dominazione e di tirannide. Non dimentichiamo che in quegli anni  il “problema atomico” e la paura che generava era all’ordine del giorno e al centro di dibattiti complessi (persino i riflessi “di coscienza “del caso Oppenheimer,  che se partivano da posizioni di natura etica,  finivano per mettere in campo anche le pesanti “responsabilità” dell’uomo). A Oppenheimer – come si sa – è attribuita la paternità dell’atomica, e le sue vicissitudini successive, come sempre in America abbastanza complesse e controverse, furono oggetto persino di una celebre trasposizione dramamturgica fatta da Heinar Kipphardt  (Sul caso di J. Robert Oppenheimer) messa in scena anche in Italia dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler, non a caso conseguente – temporalmente parlando - a Vita di Galileo  di Brecht e ad essa speculare persino nella riutilizzazione di una parte dell’impianto scenografico quasi a volerne fare un unicum idealizzato in divenire sui rapporti e le anomalie fra “scienza e gestione del potere” che nel discorso “conclusivo” faceva dire allo scienziato atomico: “Io mi domando, al contrario della Commissione, se per caso noi fisici non abbiamo dato talvolta al nostro governo una lealtà troppo grande, troppo incondizionata, contro il nostro miglior discernimento, e per ciò che mi riguarda non solo nel caso della bomba all’idrogeno, Abbiamo dedicato gli anni migliori della nostra vita ad elaborare mezzi di distruzione sempre più perfetti; abbiamo fatto il lavoro dei militari, e dentro di me io sento che questo era sbagliato. Nonostante che io non  intenda oppormi al giudizio della maggioranza di questa Commissione, e quale che sia il risultato del ricorso, io non prenderò più parte a progetti di guerra. Abbiamo fatto il lavoro del diavolo e adesso torniamo a quelli che sono i nostri veri compiti. Pochi giorni fa Rabi mi ha detto che intende tornare a dedicarsi esclusivamente alla ricerca. Non possiamo far nulla di meglio che tenere aperto il mondo in quei pochi punti che si possono ancora tenere aperti” che credo siano parole abbastanza in sintonia proprio con “l’aria” che si respirava e con il messaggio veicolato attraverso la favola raccontata da Zeiman, che è poi una riflessione “critica”  che, rendendo più immediata l’equazione fra la sostanza chimica che può distruggere il pianeta con il pericolo atomico, riesce a far leggere nella rappresentazione della lotta tra Roach (lo scienziato)  e Antigas (il malvagio conte capo dei lestofanti) il  riflesso evidente delle tensioni emerse durante la guerra fredda, pacifismo e “fuga dei cervelli” compresi. Non vorrei però portare  fuori strada con i miei discorsi un po’ troppo seriosi, stornando  l’interesse verso questo piccolo capolavoro dell’ingegno creativo, che non ha in fondo assolutamente niente di così demagogicamente ostentato e possiede invece la leggerezza del tocco “estroso” che può certamente invitare a “riflettere”, ma divertendo (che è poi il modo migliore per catturare davvero l’attenzione e l’interesse).
In effetti, una materia di così scottante attualità avrebbe potuto facilmente lasciarsi prendere la mano dalla “tesi”, scadendo così  in una plateale quanto scontata grossolanità di risultati. Il regista cecoslovacco (prima di inventare il composito genere di animazione che ci ha regalato con questa sua opera vantava già  un interessante e prolungato curriculum come vetrinista e cartellonista pubblicitario) ha invece accuratamente  evitato persino i trabocchetti della retorica, proprio allontanando nel tempo (con l’ausilio appunto di Verne) la figura e le vicende del suo protagonista, situando il tutto nell’alveo  di quella civiltà ottocentesca che idealizzava con candida fede proprio la positività del progresso tecnico inteso come emancipazione naturale e non dannosa – persino indispensabile - così ben esplicitato nel  celebrato Ballo Excelsior di Manzotti/Marenco che deliziava le platee di mezzo mondo. Ciò gli ha consentito di dominare meglio la narrazione, e al tempo stesso di compiere una felicissima rievocazione proprio di quell’età tutta percorsa da uno slancio febbrile, e animata dalla convinzione di essere ormai  prossimi a ritrovare, grazie alla evoluzione tecnica e scientifica,  la miticità “del tempo dell’oro della terra”.
L’incomparabile  ironia (ma anche il pessimismo di fondo) del film nasce allora proprio dalle  personali e innovative modalità di rappresentazione, oltre che dalla studiata  linearità conoscitiva  con cui Zeman  riesce a far rivivere proprio gli aspetti e la mentalità  di un secolo recente ma già lontanissimo, la cui ingenua serietà e dignitosa compostezza, appaiono ai giorni nostri qualità improntate non tanto al positivismo, ma semmai  a un involontario disincantato umorismo che può suscitare al massimo il sentimento della “tenerezza” un po’ nostalgica. Per instaurare questo rapporto di distacco-partecipazione con la propria materia, Zeman ha fatto ricorso a una trovata geniale (e qui passiamo alla “forma”), muovendosi sicuro alla conquista di un meritato successo internazionale (purtroppo limitato nel tempo perché non è stato capace di rinnovarsi negli anni come invece la qualità delle “scelte” e delle soluzioni avrebbero meritato) mischiando con artistica competenza, elementi disomogenei come interpreti in carne ed ossa, disegni animati, fondali dipinti, marionette e burattini con una tecnica mista capace di ricreare un universo fiabesco ingenuo e allo stesso tempo raffinatissimo che si muove fra Méliès  del cui cinema pionieristico ritrova e  recupera, evocandolo “con il tocco giusto” e il nuovo splendore figurativo “quel senso del meraviglioso, quel piacere del racconto fantastico, quel gusto scenografico che furono le sue caratteristiche peculiari”  (Rondolino),  e la mediazione naïve della “ingenua” fantascienza di fine ottocento attraverso le “rivisitazioni” delle incisioni sul legno e delle illustrazioni popolari di Benett e Riou realizzate per l’editore Hetzel, un “connubio” ideale che gli permette di ricreare quella finta innocenza senza stonature che è un amalgama di magia e parodia arguto e raffinato pieno di inventiva creativa. Tutti si muove sugli sfondi all’apparenza “amorfo” di stampe e disegni recuperati dal quel secolo ormai lontano, scelti e ricostruiti con un gusto squisitissimo, e così preciso,  al punto di “ricreare” anche sullo schermo la stessa “grana” degli originali.  
I primi minuti del film sono bellissimi (magari adesso con la tecnologia che rende possibile – ma meno palpitante- anche l’impossibile, potrebbero stupire meno… ma l’afflato della poesia rimane, e anche in un mondo sempre meno disponibile ad “emozionarsi” davvero, come quello della contemporaneità, credo che possano rappresentare ancora una indimenticabile esperienza). Quello che è certo, è che allora, al momento della distribuzione in sala,  erano davvero  un momento di “grande cinema” che cercherò di “ricordare” così:. Ecco… lo spettacolo ha inizio e inizia la magia. Davanti ai nostri occhi, gli immobili “scenari” che fanno da sfondo “disegnato”,  improvvisamente cominciano ad animarsi, le linee e gli schizzi  prendono vita, i personaggi ci si muovono dentro  e la fusione fra reale e immaginario è davvero sbalorditiva, in perfetta sintonia di spirito proprio rispetto a un’epoca nella quale proprio l’uomo – e noi come spettatori riviviamo questa magnifica esperienza - ha saputo quasi annullare i confini fra la realtà  e il fantastico al punto da farli apparire, a volte, addirittura inesistenti.
Ma le scene “memorabili sono davvero moltissime, perché il film è ricco di gag eccellenti, tutte orchestrate con perizia “immaginifica”, come la sequenza dedicata alla proiezione cinematografica, realizzata utilizzando proprio un antenato del cinema, un fenachistoscopio “perfezionato” per le nuove esigenze aggiornate,  o come quella del balletto di ippocampi e meduse davanti agli oblò del sommergibile. Insomma – potremmo definirle - le mille trovate di cui il film è ricco, tutte ingegnose, originali, fantasiosissime, “sorvegliate” e sorrette  da un gusto (e una cultura) rigorosissimo. A quando allora un “recupero” che permetta anche alle nuove generazioni di riattivare  la propria immaginazione personale rituffandosi in quel mondo (e in quel modo di fare cinema) se non del tutto perduto, sicuramente andato in disuso,  ma tutt’altro che dimenticato?.

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