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Radio America

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Radio America

di spopola
8 stelle

Altman raggiunge ancora una volta i sublimi vertici del capolavoro e ci regala, a trent’anni di distanza dal mitico “Nashville”, un altro indimenticabile affresco su quell’America rurale e misconosciuta, malinconica e struggente, crepuscolare e disincantata, nella quale ha spesso trovato l’ispirazione più profonda per esprimere la sua genialità.

Dopo la parziale battuta d’arresto di “The Company”, con “A Prairie Home Companion” – “Radio America” in Italiano - Altman raggiunge ancora una volta i sublimi vertici del capolavoro e ci regala, a trent’anni di distanza dal mitico “Nashville”, un altro indimenticabile affresco su quell’America rurale e misconosciuta, malinconica e struggente, crepuscolare e disincantata, nella quale ha spesso trovato l’ispirazione più profonda per esprimere la sua genialità iconoclasta. Gli anni trascorsi hanno forse stemperato la feroce rabbia di un tempo, quella voglia di “incidere” graffiando che era una delle componenti peculiari delle combattive opere espresse nel periodo più fecondo della sua maturità artistica, ma è rimasto invece miracolosamente immutato, diventando persino più ironico e cattivo nello stigmatizzare tic e nevrosi di una generazione in declino, l’occhio tenero e disilluso dell’accorato cantore di una America forse davvero ormai irrimediabilmente perduta e agonizzante, che “muore cantando” e non si lascia scoraggiare, e capace per questo di “accompagnare” con nostalgico abbandono critico, sulla strada che conduce verso la collina “di Spoon River” dove tutti prima o poi dovremo approdare per dormire il sonno senza risveglio dell’eternità, il nutrito gruppo di memorabili personaggi che animano il racconto in un’opera che rappresenta certamente anche il personale tragitto di “avvicinamento ragionato” del regista (a ottantun anni suonati è inevitabile fare i conti, volenti o nolenti, con questa inarrestabile realtà) verso l’irrimandabile incontro con il biondo Angelo della Morte così “magicamente” evocato in una delle scene più struggenti – fra le tante indimenticabili “virtuosistiche” sequenze – dell’intera pellicola (l’irrazionale, tangibile presenza di una stupefacente Virginia Madsen, concretamente “carnale”, ma al tempo stesso astrattamente impalpabile come un sogno irreale e metafisico). A differenza di Nashville (del quale è speculare “riflesso” nella costruzione e nei rapporti) qui c’è quasi una unicità di tempo e di luogo (quello della durata di una trasmissione radiofonica – che si suppone essere l’ultima per motivi contingenti e inderogabili – e del teatro con pubblico dove avviene la registrazione in “presa diretta”) compresa però fra due sorprendenti parentesi che rappresentano, anche visivamente, una citazione fortemente evocativa della pittura di Edward Hopper, decisamente molto di più e di meglio di una semplice cornice ornamentale, in quanto, soprattutto il finale, riesce ad acquisire i toni della morale dando il “respiro dell’attualità” all’intero percorso narrativo. Fra musiche e aneddoti pungenti e divertiti, la macchina da presa (anzi le tre cineprese costantemente utilizzate in simultanea) girano vorticosamente accarezzando i personaggi, lambendoli da ogni lato, riproiettandoli riflessi su specchi e vetrate. Presenze le loro, che acquisiscono dimensioni umane indimenticabilmente “schizzate” con piccolissimi tocchi e annotazioni, grazie alla geniale sceneggiatura di Garrison Keillor che accompagna per un’ora e mezzo con divertita cattiveria il nostro andirivieni curioso fra cowboy sboccatamente canterini, sorelle ormai sfiorite nostalgicamente attaccate al ricordo di un’epoca migliore, giovani poetesse ispirate dalla morte e dal suicidio, musicisti, rumoristi, segretarie di produzione in procinto di partorire e vecchi puttanieri dal cuore troppo “debole” per sopravvivere, all’interno di un universo composito e variegato, quasi “fantasmatico” inquadrato dal laconico, chandleriano sguardo di un irresistibile, sornione Kevin Kline (nel ruolo del detective privato addetto alla sicurezza dall’improbabile nome di Guiy Noir, che “racconta” e si racconta con modalità verbali stereotipate e riconoscibilissime) e da quello più disincantato e cinico del “tagliatore di teste” (una nuova ottima prova del sempre straordinario Tommy Lee Jones) che ha il compito di “fermare” il programma e di vendere il teatro e che non mancherà il bersaglio nonostante che … (ma questo lasciamolo scoprire agli ignari spettatori che avranno la voglia di avvicinarsi a quest’opera insolita e affascinante con animo libero e propositivo). Anche il nome del teatro, che è poi quello dello scrittore Francis Scott Fitzgerald, è tutt’altro che casuale, perché rappresenta insieme alle musiche country utilizzate e alla “riproposizione” storicizzata del periodo delle epocali “trasmissioni” in diretta che fecero grande la radio di quegli anni lontani, un’altra specifica citazione “subliminale” che sintetizza il periodo e il declino di un'epoca, riproponendo indirettamente il percorso di colui che fu l’indimenticabile “cantore” della gioventù dorata e spensierata, “bella e dannata” che, in anni ormai lontani, stazionava, ritenendosi immortale e indistruttibile, eterna e immarcescibile, nelle dorate terre “di qua dal paradiso”, quella generazione privilegiata e incosciente “ardita come il figlio di Danae e concepita come Perseo in un sogno d’oro” che avrebbe dovuto ben presto e a più riprese, fare i conti con gli “ultimi fuochi” di una realtà molto differente e distante capace di distruggere molte (se non addirittura tutte) di quelle illusioni febbrili. Ed eccoci allora catapultati in una non meglio precisata cittadina della provincia americana, in un sabato sera non di ordinaria amministrazione (perché il progresso inarrestabile che sta determinando cambiamenti epocali lo renderà “definitivo” e irripetibile) dove in diretta, dal locale teatro e di fronte a un pubblico realmente presente, va in onda la registrazione di uno spettacolo radiofonico una volta di successo, fatto di musica country, battute salaci e allusioni sporcaccione, stralunati jingle pubblicitari, improvvisazioni dal respiro quasi goliardico e canzoni dal sapore semi-pornografico, portato avanti con fiera determinazione, da un gruppo di “resistenti” caparbi e propositivamente speranzosi, davanti al severo occhio dell’incorruttibile Impresario venuto apposta per decretare la fine della trasmissione non più in linea con le aspettative e per definire la vendita dell’immobile da destinare ad altro e più remunerativo uso. I tempi cambiano e niente può fermare il progresso… nemmeno Asfodelo, sinuoso e conturbante Angelo della Morte che aleggia sornione, e “sfiora” quelle ombre che vivono di passato, le "tocca", le concupisce, portando via con sé quelle che hanno davvero raggiunto il traguardo ed esaurito il proprio tempo terreno. Tutto ha un inizio e una fine, sempre e comunque, è inevitabile: la consapevolezza dell’ineluttabilità degli eventi, è profondamente radicata ed avvertibile negli sfuggenti sguardi spauriti ma indomiti di chi sta perdendo ogni giorno di più le proprie certezze, ma intende procedere con il sorriso tirato del positivismo “impossibile” perché, come si dice da quelle parti, “Se le ingnori, le cattive notizie prima o poi se ne vanno”. Qualcuno dunque sarà preso per mano da Asfodelo già nella memorabile sera di quel sabato lontano. Gli altri, i superstiti sbigottiti e attoniti, tenteranno di rigenerarsi con dolce rassegnazione per ritrovarsi ancora una volta in quel bar dal sapore hopperiano che aveva aperto le danze, a molti anni di distanza, quando ormai le “differenze” saranno diventate abissali, e rimarrà difficile persino “restare aggrappati ai sogni come una volta” nella ormai mutata e mutevole realtà che ci circonda. E allora, ancor più di prima, non resta che il ricordo nostalgico del “come eravamo” a riscaldare i cuori e la memoria, né le nuove generazioni potranno fornire elementi concreti di speranza, se persino la tenera, sconfortata insicurezza di Lola (una rarefatta, struggente Lohman) si è nel frattempo trasformata, rompendo la crisalide, non in una “eterea” e indifesa farfalla, ma in una cinica e concreta donna d’affari interessata solo alla affermazione economica e al successo. Il gruppo dei sopravvissuti (o dei morti viventi) è tutto lì, seduto intorno al tavolo, malinconico e surreale manipolo di redivivi quasi inconsapevoli (e fra loro c’è certamente anche il “fantasma” di Altman che serpeggia immateriale negli sguardi e nei ricordi), approdati inconsapevolmente al nuovo appuntamento con l’Angelo Biondo di nuovo in attesa dietro la porta per un ultimo irrimandabile tet-a tet con qualcuno di loro (se non addirittura con tutti). Che dire dei magnifici interpreti di questo affresco epocale, se non decantarne nuovamente le lodi? Della Madsen, della Lhoman, di Kline e di Lee Jones abbiamo già avuto modo di esprimere poco più sopra il compiaciuto "riconoscimento" per la formidabile resa. Rimane da parlare degli altri eccellenti interpreti, sottolineando prima di tutto la superba prova della Streep, disordinata dispensatrice di ricordi, volubile e concreta (basterebbero le occhiate e i movimenti della scena finale per stigmatizzare la grandiosità della sua prestazione); la altrettanto superlativa Lily Tomlin dai ricci capelli rossi allettata dalla voglia di “farsi bionda” che si lascia trasportare con veemenza nei viaggi del ricordo e della memoria, pur rimanendo concretamente ancorata a una realtà ormai sfuggente che tenta inutilmente di serrare fra le dita; l’indimenticabile duo dei Cowboy con la chitarra Dusty e Lefty (un Woody Harrelson e un John C. Relly da antologia) e ancora Garrison Keillor - anche interprete nel ruolo di se stesso. Ma è l'intero irresistibile parterre dei tanti bravissimi protagonisti (più di trenta) a risultare favoloso ed è davvero impossibile citarli tutti singolarmente come sarebbe necessario, onde evitare l’interminabile “elenco della spesa” che finirebbe inesorabilmente per annoiare. Ottima (e come poteva essere diversamente?) la scelta delle canzoni e le conseguenti performances interpretative. Nonostante che il doppiaggio italiano sia stato eseguito “a regola d’arte” , se ne consiglia caldamente la visione in lingua originale con sottotitoli.

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