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La voce solitaria dell'uomo

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

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La recensione su La voce solitaria dell'uomo

di EightAndHalf
4 stelle

La voce solitaria dell'uomo dimostra che, fin dalla sua prima pellicola, Aleksandr Sokurov ha prestato particolare attenzione alle forze che intervengono nella tragedia vitale ed esistenziale dell'uomo: sicuramente le forze della Natura, impassibili e indifferenti di fronte ai limbi emozionali degli esseri umani, e poi le forze della Storia, che hanno assunto autonomia dalla volontà umana, che non sono più espressioni di ideali e di progetti, ma perseguono un Caos che più che rigenerante appare distruttivo di tutte le speranze. L'uomo è una piccola voce che cerca il proprio referente reale, un'anima staccata dal corpo e condotta per la gola nella infinita imprevedibilità del destino, che fa cozzare e scontrare in maniera violenta passato e presente, amore e morte, privando l'essere umano di qualsiasi tipo di ordine sentimentale, ricacciandolo nell'indefinitezza della Natura. Benché l'uomo risulti compresso fra queste due forze respingenti, finisce sempre per essere solo, nonostante i legami affettivi, familiari e d'amicizia. L'esperienza storica si annulla di fronte all'atemporalità di quel vento che smuove le fronde degli alberi e la superficie di un lago, si vanifica nello scontro generazionale padre-figlio, in cui le visioni dell'esistenza cambiano e diventano inconciliabili, si riversa nelle frustrazioni del protagonista Nikita che, tornato dalla guerra (siamo in Russia negli anni '70, il comunismo ha già sbattuto la porta in faccia a molti), non fa tesoro del suo passato vitale, che forse è invece un presente che cerca di farsi di nuovo strada nel suo immobilismo shockato, e cade nell'abisso che sta fra Natura e Storia, fra due immensi intuitivi e deduttivi di cui l'uomo è solo in grado di stabilire le conseguenze: sofferenza cosmica e impalpabile, che si traduce in visioni al ralenti, colori saturi all'eccesso e lentezza pedante e prolissa. Il problema dell'opera prima di Sokurov è la sfacciata intenzione di realizzare un qualcosa di originale e di notevole (e già autoriale, il che dimostra spesso nelle opere prime una certa paradossale usura manierista) senza però dimenticarsi dei predecessori, un Tarkovskij che lascia in eredità le ellissi sincopate dei ritmi e un Koncalovskij che spiana la strada sulle diffuse miserie umane nei lavori dei campi e nelle attività manuali, spesso ritratte dal giovane Sokurov in lunghe sequenze dall'intento ipnotico, ma che non sanno perforare lo schermo e attanagliare i sensi. Se si guarda al futuro del regista ci si renderà conto che lentezza "pittorica" e pensiero filosofico del regista offriranno opere sinestetiche e "paranormali" senza un ostico fine a sé stesso - come qui - e un filtro lirico che non permette alcun tipo di empatia con personaggi che incarnano una tristezza sicuramente non di matrice sokuroviana e sicuramente non innovativa, ma che sicuramente lancia i semi per un evoluzione registica-pittorica-musicale che "farà" la storia del cinema. Forse toccato anche da un certo cinema europeo sperimentale (o forse no), in ogni caso il cineasta russo si rivela bloccato, volenteroso fino allo stremo ma gravoso nell'eccessiva letterarietà visiva, che relega La voce solitaria dell'uomo a una delle sue opere in cui si riesce a vedere non arroganza intellettuale quanto piuttosto una disperata patina respingente non meno della Natura e della Storia messe insieme. Solo un po' di pazienza, e Sokurov sfornerà capolavori.

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