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I maledetti

Regia di René Clément vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I maledetti

di hupp2000
8 stelle

Il primo lungometraggio du René Clément è un film appassionante, diretto con mano ferma da un regista che riservava non poche sorprese negli anni successivi. Per chi apprezza René Clément, da non perdere. L'idea di partenza è originale e non tradisce le aspettative.

Il primo lungometraggio di René Clément non ha ancora la raffinatezza delle pellicole successive e non può contare su attori di richiamo, ma merita di essere riscoperto, in primo luogo per l’originalità della vicenda raccontata. Siamo nell’aprile del 1945, la Seconda Guerra Mondiale è alle ultime battute. Dalla Norvegia parte alla volta del Sudamerica un sommergibile tedesco. A bordo troviamo un campionario di squallidi personaggi dell’epoca nazifascista in fuga dall’imminente tracollo del regime. Tra questi troviamo un alto esponente della Gestapo e il suo braccio destro, un generale della Wehrmacht, un industriale italiano e la consorte che scopriamo essere l’amante del generale tedesco, un giornalista francese collaborazionista e uno scienziato svedese non meno compromesso la cui carriera è ormai distrutta. Mentre sta percorrendo il canale della Manica, il sommergibile subisce uno scossone e la moglie dell’Italiano si ferisce alla testa. Il generale tedesco ordina di attraccare in una località francese e fa sequestrare un medico. Imbarcato con la forza, il dottor Guilbert capisce immediatamente di essere finito in un nido di vespe, ma ha subito due ottime idee: in primo luogo quella di fingere di non conoscere la lingua tedesca e poi quella di inventarsi un caso di difterite a bordo, fattore che lo rende indispensabile e lo protegge per il resto della traversata. Durante il viaggio, i contatti radio si fanno sempre più rari. Ad un certo punto, però, viene captata la notizia secondo cui Berlino è stata occupata dall’esercito sovietico e Adolf Hitler si sarebbe suicidato. A bordo, la confusione è totale. C’è chi, come il gerarca della Gesapo, crede ancora nella vittoria finale, ma anche chi, come il suo aiutante o l’industriale italiano, vede giunto il momento di levarsi qualche sassolino dalla scarpa. Gli antagonismi esplodono, scoppiano le rivalità e il dottor Guilbert si sente sempre più in un mare di guai. Approdata sulla costa sudamericana, la lugubre brigata scopre che i contatti su cui credeva di poter contare sono passati in blocco dalla parte degli Alleati. Impossibile ottenere rifornimenti e carburante. Come se non bastasse, arriva la conferma della resa senza condizioni della Germania. Nel panico che ne deriva, qualcuno tenta la fuga, altri si suicidano o vengono uccisi, la donna precipita in mare nel tentativo di tornare a bordo e resta stritolata tra la banchina e lo scafo dell’imbarcazione. La ciurma si considera svincolata e fa perdere le proprie tracce. Restato solo nel sommergibile alla deriva, il dottor Guilbert ammazza il tempo mettendo per iscritto la vicenda che lo ha visto involontario protagonista. Dopo alcuni giorni, viene raccolto da una nave militare americana.

Girato nel 1946, il film è quasi un “instant movie” caratterizzato da una comprensibile dose di manicheismo, a cominciare dal titolo esplicito (“Les maudits”, “I maledetti”), che bolla senza appello i sinistri protagonisti della vicenda. René Clément evita con singolare bravura l’atmosfera claustrofobica cui ci si attende quando un film si svolge in larga parte a bordo di un sommergibile. La cosa gli riesce grazie ai dialoghi e agli scontri inizialmente solo verbali tra i soggetti implicati. I loro rancori sono come fuoco sotto la cenere e l’arrivo di un corpo estraneo, quale è il dotor Guilbert, non fa che accelerare la rottura di un fragile equilibrio basato sull’incertezza in merito all’esito del conflitto e/o alla morte di Hitler, nonché sull’autoritarismo imposto a bordo dal gerarca della Gestapo, cui si sottomette anche il generale della Wehrmacht, da tempo rassegnato al dominio delle polizie parallele del Führer, in tutto prioritarie rispetto alle forze armate istituzionali. La sceneggiatura rende perfettamente conto dei rapporti deleteri che emersero tra i sostenitori dell’ideologia nazista nel momento in cui si giunse alla definitiva sconfitta. Fatta eccezione per il prepotente graduato della Gestapo, ossessivamente fedele alla sua guida spirituale, anche dopo averne appreso il decesso, le maschere degli altri cadono una dopo l’altra e i meschini calcoli che li avevano portati ad accondiscendere ad un modello criminale lasciano il posto ad un automatico e individualistico cambio di rotta.

Recitato correttamente ma senza acuti, il film pecca un po’ nelle scene concitate della parte finale, dove scazzottate e aggressioni hanno poco di realistico, ma si era già riscattato ampiamente in precedenza, grazie alla rapida successione degli eventi e all’incalzante smascheramento dei vari personaggi. Il ritmo del racconto non viene mai meno, lo spettatore attende in ogni momento la svolta successiva e non viene mai deluso, fino all’epilogo in terra sudamericana. Anche se breve, va ricordata la partecipazione di Marcel Dalio, all’epoca forse il più conosciuto tra gli attori del film, in virtù della sua lunga carriera franco-americana. Partecipò a opere memorabili, magari con ruoli di secondo piano, ma pur sempre in “Pepé le Moko” (1937) di Julien Duvivier, “La grande illusion” e “La règle du jeu” di Jean Renoir nello stesso 1937 e nel 1939, per citare la parte francese. “Casablanca” di Michael Curtiz nel 1942, “Acque del Sud” di Howard Hawks nel 1944 e “Per chi suona la campana” di Henry King nel 1945, per citare la parte americana. Qui è Larga, affarista sudamericano che durante la guerra ha garantito ai nazisti ogni sorta di accordi commerciali e approvigionamenti. Passato a rifornire i vincitori anglo-americani, viene ovviamente ucciso dai traditi tedeschi. Viene ucciso a coltellate mentre tenta invano di rifugiarsi dietro la tenda di una doccia retta da anelli. Il suo assassino lo colpisce a più riprese e Larga si aggrappa alla tenda facendone saltare uno ad uno gli anelli, ripresi a distanza ravvicinata. Vi ricorda qualche cosa? Ho fatto una rapida ricerca su internet. L’ipotesi che sir Alfred Hitchcock abbia visto il film e se ne sia ispirato per la leggendaria scena di “Psycho” (1960) è banalmente affascinante, ma non esistono prove documentali della sua fondatezza.

Il film è bello, si manda giù tutto d’un fiato e appassiona, infischiandosene di qualche punto debole nelle poche scene di azione e del livello non eccelso degli attori.

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