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La passione di Giosuè l'ebreo

Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film

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La recensione su La passione di Giosuè l'ebreo

di Aquilant
6 stelle

Non si comprende alla perfezione l’entusiasmo scaturito attorno a questa “Passione” anomala considerata, forse a ragione, il miglior film italiano (intra)visto alla Mostra veneziana, grazie anche alla tutt’altro che agguerrit(issim)a concorrenza. “In terra caecorum monoculus rex”, verrebbe da dire grazie all’espressione dotta insolitamente a portata di mano, ma a che scopo girare e rigirare il coltello nella piaga anche se l’esclusione di “Private” dalla corsa per il miglior film straniero a vantaggio di qualche possibile bufala continua a gridare vendetta?
Ma tornando all’argomento in questione, e volendolo affrontare nel suo aspetto più interessante (perché sulla prima parte del film è meglio stendere un velo pietoso), cioè quello della rappresentazione di una “Casazza” cosparsa di interpretazioni allegoriche e simboliche, è opportuno interrogarsi sull’entità del valore aggiunto apportato da Scimeca in quel suo ribaltamento dell’assioma che attribuisce agli ebrei la responsabilità della morte del Messia, qui riproposto nel finale a parti rigorosamente invertite.
La crocifissione di un ebreo finto messianico opportunamente smascherato da zelanti farisei cattolici andrebbe probabilmente colta negli intenti dell’autore come una sorta di riscatto sacrificale da parte di un popolo condannato a vagare in lungo ed in largo onde espiare la propria colpa, vale a dire come una vera e propria riappropriazione della dignità perduta nel corso di quasi duemila anni di peregrinazioni. E non a caso le ultime parole pronunciate dal malcapitato Giosué, “Dio è uno”, che sottolineano la piena convinzione del suo credo religioso, alludono senza ombra di dubbio, se considerate in senso lato, al mancato riconoscimento della Trinità da parte della comunità ebreo-giudaica presa nella sua globalità. Ma ad uno sguardo più attento il disconoscimento della propria identificazione col Messia cattolico attuato in extremis da parte del protagonista e causato chiaramente dall’ancestrale paura dell’uomo posto a tu per tu con lo spettro della morte, restituisce al sacrificio propiziatorio un carattere anodino, privo della pur minima valenza messianica, nullificando la conclamata inversione dei ruoli e svilendone nel contempo la funzione taumaturgica, chiave di volta del livello primario della narrazione.
Più realisticamente, tralasciando l’aspetto simbolista e volendo prendere in considerazione il lato artistico della vicenda, non si può negare un certo tasso di coinvolgimento emozionale della storia specie nella messa in scena di un finale che dalla “lezione gibsoniana” trae larga ispirazione nell’aspetto più deteriore, non lesinando affatto in efferatezze varie ed in un concentrato di “rosso sangue e splatter puro”. Letteralmente patetica la recitazione di Enrique Irazoqui, pardon Leonardo Cesare Abude, dalla dizione ciondolante e dall’aspetto imbambolato nel vuoto. E meno male che quel finale con la bravissima Anna Bonaiuto, già indimenticabile fantasma vagante nei meandri di una babelica città nell’“Amore molesto” ed altrettanto indimenticabile novella Madonna ebrea affranta ai piedi della croce, assurta a dolente incarnazione simbolica di tutte le madri percorse dal dolore della perdita, contribuisce a riscattare parzialmente una controversa vicenda che forse un’opportuna revisione critica in un non immediato futuro potrà meglio contribuire a porre nella sua giusta luce. E a dare maggior fiato al suo sordo grido di dolore contro ogni tipo d’intolleranza religiosa.

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