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Frontiere selvagge

Regia di Ray Enright vedi scheda film

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La recensione su Frontiere selvagge

di scapigliato
8 stelle

Il 1947 è l’anno del secondo film, e primo di due soli western, che due volti mitici dell’epoca girano insieme. Il granitico Randolph Scott, e il dolce Robert Ryan sono amici e compagni di questa avventura di frontiera in tipico tocco classico hollywoodiano. Siamo in piena campagna anni ’50, il paese va pubblicizzato, e cosa meglio del western per rendere chiari i valori dell’America? Certo il film va spiato anche un po’ dal buco della serratura se vogliamo dargli un valore storico, perchè artisticamente è la solita amministrazione di scene e topoi western, anche se con qualche guizzo che va notato.
La storia è quella di Liberal, cittadina arida del Kansas, e già il nome sembra una grande insegna pubblicitaria per l’America, in cui i coltivatori sono alle strette: da un lato il terreno arido che non permette loro di coltivare, dall’altro i cowboy, i veri ed originali bovari, che con l’arroganza del loro bestiame pestano e brucano i campi dei coltivatori, anche con le forze. La guerra ormai non è più tacita, e molti sono i contadini che se ne vanno. Fortunatamente arriva in città il mitico Bat Masterson, il più grande sceriffo del West dopo l’amico Wyatt Earp, che aiuta i locali, capeggiati da Robert Ryan, a dare filo da torcere agli uomini di un losco affarista, tale Logan Maury, che si serve del viscido Carmody, un davvero laido ed inquietante grassone che ha il volto di Billy House, per contrastare tutori della legge e coltivatori.
L’opposizione in questione è almeno la seconda più famosa e fondativa dell’immaginario americano, dato che la primissima è quella uomo civile/selvaggio. Trattasi di quella coltivatori/allevatori, a volte letta come buoni/cattivi oppure destra/sinistra. La questione in realtà è molto più sottile. Già nella gloriosa vicenda di Wyatt Earp sappiamo che gli sceriffi di Tombstone sono repubblicani e portano l’ordine sconfiggendo il clan dei Clanton, democratici che rubavano il bestiame ed esigevano più terre per i loro pascoli. Destra e sinistra si sfidano all’origine sul territorio di contesa tra conservatorismo (la destra repubblicana) e il progressismo (sinistra democratica). Che poi, il bipolarismo americano non va letto come il nostro europeo, è un altro discorso. Sicuramente, fin dai libri di scuola sappiamo che i Repubblicani, ai tempi della nascita della nazione americana, erano animati da valori che sono oggi dei Democratici. Quindi, in un panorama politico mutevole e complicato, ciò che fa testo è la vita di tutti i giorni. E nel West non era rosa e fiori, si moriva per poco. Fatto sta che la lotta tra contadini ed allevatori, che ha tenuto banco nella storia americana fino ad oggi, se non ancora oggi, supera le dicotomie politiche e sociali per rappresentare le categorie umane di quell’epoca: il contadino sedentario, semplice, terrigno e comunitario contro il cowboy nomade, virile, coraggioso ed individualista. Certamente la divisione manichea non da ragione allo spirito ribelle che noi siamo soliti attribuire a pistoleri e cowboy, forse meglio dire horsemen, cavalieri. In conclusione, un paese che cerca l’appoggio del cittadino, non può soffocare la tradizione e i diritti fondamentali della civiltà, quindi preferisce riportare l’ordine tra i contadini che ringraziano, e consegnare alla giustizia i cowboy. La cosa strana è che il cowboy, era sempre stato, e sempre lo sarebbe poi stato, il simbolo, l’esempio iconografico di un paese. C’erano veri e propri spot pagati dal governo per insegnare il rispetto delle leggi, e i vari valori integri del buon americano attraverso la figura del buon cowboy, gentile con donne, vecchi, bambini e animali (in perfetto stile John Wayne), rispettoso dell’ordine e delle leggi, cieco servitore della patria e acerrimo nemico dell’immoralità. Una brodaglia disgustosa che fa ancora oggi le sue vittime. Per fortuna c’è stato chi, dietro o davanti alla macchina da presa, ha cominciato a mettere in discussione tutto ciò e a svelare il marcio dei meccanismi oliati della cultura filo-governativa, quella dominante, imperante e costrittiva, che imponeva un indirizzo mentale ai propri cittadini, invece che lasciarli liberi di scegliere ed autodeterminarsi, come la tanta decantata libertà americana avrebbe dovuto fare.
Il film è comunque piacevole, e tra i due mitici protagonisti è il cattivo più gustoso a tenere banco, ovvero il laido Carmody di Billy House, che sembra anticipare l’infernale Quinnlan di Orson Weels, uscito più da un film horror che da un western. La sua presenza è inquietante. Non solo l’attore è bravo ad assumere pose e sguardi maniacali e diabolici, ma il regista stesso sa come “tirarlo giù”, impressionarlo sulla pellicola. É il personaggio più riuscito, perchè sia Scott che Ryan sono due volti buoni, che non hanno bisogno di un contraddittorio interno al loro personaggio. Sarà l’evoluzione ribelle del genere a dare loro l’opportunità di salutare il western con abiti più consoni. Infatti Randolph Scott sarà uno dei due vecchi protagonisti sul viale del tramonto di frontiera in “Sfida sull’Alta Sierra”, secondo bellissimo western di Sam Peckinpahn, uno dei primi western crepuscolari, disillusi e antimitici. Robert Ryan invece, passerà sempre tra le mani dello zio Sam, per approdare in quel “Mucchio Selvaggio” in cui William Holden e compagni vanno consapevoli verso la morte. In entrambi i casi si tratta di due ruoli atipici, entrambi disillusi, piegati dagli anni, espressioni viventi di una generazione (il western in bianco e nero filogovernativo) che ha perso, che ha sbagliato ad intendere la vita. Diventano così figurazioni di morte. La loro morte.

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