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Non desiderare la donna d'altri

Regia di Susanne Bier vedi scheda film

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La recensione su Non desiderare la donna d'altri

di Decks
3 stelle

Il cambiamento del percorso artistico di Susanne Bier ha inizio qui: è la storia di questi due fratelli, a essere il primo film della regista danese che viene venduto in tutto il mondo, dando alla signora di Copenhagen la fama che gli spettava, più l'onore di essere un'altra tra i tanti, a vedere una propria opera, finire in pasto alla filosofia del remake made in USA.

 

Il titolo italiano ha la colpa di far nascere dei grossi fraintendimenti su cosa il lungometraggio sia in realtà: il risonante comandamento evangelico farebbe pensare ad un amore colpevole, ma al contrario, la traduzione più esatta sarebbe stata "Fratelli". È questo il tema portante del film: l'uomo contro uomo, la guerra fratricida, non l'inesatto titolo che gli smaniosi distributori commerciali hanno appioppato alla pellicola.

Certo l'intestazione originale è comunque emblematica per altri biblismi: Michael e Jannik sembrano per l'appunto, delle riletture in chiave moderna di Caino e Abele. Due fratelli messi a dura prova dall'invidia e dal sacrificio.

Al contrario del testo biblico però, Michael/Caino viene messo alla prova non solo con il fratello biologico, ma con un compagno militare, accomunati dalla sventura e dalla terra natia. Inutile dire che Michael fallirà in entrambe le situazioni: egli sopravvivrà all'insegna della più dura legge di natura: Mors Tua Vita Mea.

Come Caino ucciderà il suo Abele connazionale proprio nel medesimo modo che tante rappresentazioni ci mostrano, per poi distruggere l'immagine del focolare domestico, demolendo la cucina e attaccando con furia Jannik.

 

 

Impietoso, diretto e sgradevole: la Bier non risparmia nessuno in questo quadro spietato della società; le peggiori nevrosi e gli Edipo irrisolti sono all'ordine del giorno. Su tutti vi è un padre alcolista affetto dal complesso di Crono; delle bambine che con precocità giocano al ruolo della femmina isterica; per finire su una madre amorevole per mestiere, che rimane travolta dal meccanismo di corsa alla successione.

Una legge di natura tipica persino negli animali, è la continuità della vita, in cui i sopravvissuti provano una certa tensione erotico-sensuale tra vedova e un qualcuno esterno che ammira e aiuta a superare questo dolore.

 

 

Le tematiche della Bier ormai le conosciamo: il concetto di famiglia demolito a causa di un componente della suddetta che parte all'estero per un qualsivoglia motivo è quasi sempre presente nei suoi film. Il problema è che qui la morale è ingigantita ai limiti dell'inconcepibile: lo spettatore si ritrova pressato su un'ottica fortemente femminista; sono gli uomini a compiere gli errori. Michael, il padre e persino Jannik sono mostri, complessati o alcolizzati ex-criminali.

La Bier si limita a prendere strenuamente le difese di Sarah, dandole volutamente una candida innocenza che non la dimostrano superiore, ma al massimo una rintontita.

La regia della Bier, per quanto sappia unire il realismo del Dogma 95 e la professionalità dei registi americani, risulta dunque fastidiosamente patetica e addirittura ricattatoria: ella ci obbliga ad avere la sua stessa visione e per farlo non pone mezze misure, rendendosi solo irritante e molesta.

 

Il peggio però deve ancora venire: la progressione narrativa non solo è implausibile e confusionaria, ma è di una lentezza esasperante: senza pathos e senza slanci melò; rimane tutto ambiguo e irrisolto, come lo sconclusionato finale.

Insomma, la trama che ha un incipit così interessante, non decolla.

Gli avvenimenti sono troppo pochi e si contano sulle dita di una mano: l'uccisione dell'amico a bastonate; il bacio tra Jannik e Sarah; l'ultimo caso di violenza domestica e la grossa bugia della bambina. Una trama spenta, priva di colpi di scena che annoia fin da subito; non si cade nel sonno solo grazie all'accostamento biblico, visto che la durata è decisamente troppo per un film del genere. 2 ore che non passano mai.

 

Non aiuta neppure la sceneggiatura, un altro aspetto che riesce solo a rendere il film simile ad una pesante soap opera. Non si salva neppure un dialogo: oltre ad essere scontati sono o continui piagnistei (nel caso di Sarah) o continue frasi filodrammatiche (nel caso di Michael e Jannik).

L'unica cosa in cui riesce questo brutto copione è rendere stereotipati e grotteschi dei personaggi continuamente impegnati in delle ridicole scene madri, per far poi posto, nel finale, ad un miscuglio di volgarità che non risparmiano neppure le bambine.

 

Meno male che a recitare ci sono degli attori che con un testo meglio scritto avrebbero saputo tirar fuori qualcosa di magistrale: ottimi attori come Connie Nielsen e Ulrich Thomsen sono imprigionati in una farsa da cui tentano di tirar fuori il meglio possibile.

Per la Nielsen non c'è nulla da fare: il suo personaggio ha pressochè tutte battute accondiscendenti e pare un manichino senz'anima e forma; Thomsen invece risolleva decisamente le sorti del film, il suo tono di voce basso e inquisitore è perfetto per la parte dell'uomo geloso, insieme ai suoi improvvisi scatti di violenza si dimostra il migliore sul set.

 

 

Il soggetto ha un interessante simbolismo e non dimentichiamoci della fotografia che usa immagini metaforiche della natura, forse l'unico vero aspetto tecnico che spicca. Per il resto è da dimenticare ed è un peccato che la Bier sia diventata famosa proprio con questo film, quando invece esiste il preferibile e ottimo "In un mondo migliore".

Non bastano gli attori a risollevare questo mattone dalla morale obbligata e per nulla condivisibile.

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