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La schivata

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su La schivata

di Peppe Comune
8 stelle

In una classe multietnica di una banlieu parigina, si sta preparando la commedia di Marivaux “Il gioco del caso e dell’amore”. Lydia (Sara Forestier) interpreta Lisetta e gira orgogliosa per il quartiere col costume d’epoca che ha comprato per la recita. Krimo (Osman Elkharraz), un ragazzo che ha il padre in prigione e che vive solo con la madre (Meryem Serbah), la conosce da una vita, ma vederla sfacciatamente disinvolta con quel vestito così vistoso addosso, gli rapisce il cuore. Krimo si è appena lasciato con Megalie (Aurèlie Ganito) e nonostante le insistenze dell’amico Fathi (Hafet Ben-Ahmed) che vorrebbe farli ricongiungere, lui si è innamorato perso di Lydia. Per starle vicino convince Rashid (Rashid Hami) a lasciargli il ruolo di Arlecchino che nell’opera di Marivaux è lo spasimante di Lisetta. Ma Krimo è un ragazzo timido e insicuro, recitare non è proprio cosa sua e starle vicino non significa saper esprimerle i sentimenti che prova per lei. Finalmente, durante delle prove in cui sono da soli, riesce a dichiararsi e aspetta una risposta da Lydia.

 

La scivata Osman Elkharraz

 

C’è un po’dello sguardo etico dei fratelli Dardenne in questo secondo lungometraggio di Abdel Kechiche, abbastanza di quel loro modo antiretorico di trattare la marginalità sociale standosene in disparte a registrare la vita che scorre. “La schivata” è un film di delicata crudezza che, concentrandosi sugli abituali “sproloqui” di un gruppo di adolescenti, ci parla delle difficoltà proprie di chi vive ai confini delle metropoli occidentali di affrancarsi dallo scomodo ruolo di emarginato sociale. L’espediente narrativo della preparazione di uno spettacolo teatrale ha un ruolo assolutamente centrale nell’economia del film e Abdel Kechiche lo usa, non per arrivare ad un elaborata riflessione sul confine tra realtà e finzione, sul ruolo dell’arte e sull’opera di mediazione dell’uomo-attore, ma per chiarire i tratti di una sorta di determinismo sociale attraverso la commistione esistenziale tra una realtà da rappresentare a teatro e i personaggi che dovranno interpretarla. La stessa struttura dell’opera di Marivaux ci suggerisce questo. Come spiega la professoressa (Carole Franck) che sta seguendo i ragazzi nella preparazione dello spettacolo, lo scambio di ruolo dei personaggi, i ricchi che diventano poveri e i poveri che diventano ricchi, non consente a nessuno di svincolarsi pienamente dalla propria originaria condizione sociale e per quanto uno si sforzi a cambiarsi d’abito non riuscirà mai a sbarazzarsi del tutto del linguaggio e delle abitudini che sono proprie del mondo a cui appartiene. I ricchi e i poveri si riconosceranno in amore sempre e solo tra loro simili. Espediente anche banale se vogliamo se non fosse che Kechiche riesce ad elaborare il tutto aggangiandoci alle sorti dei giovani protagonisti senza mai scadere nella banale delineazione del ribellismo di quartiere e senza mai risultare gratuitamente didascalico. Pedina i suoi personaggi aderendo con proficua resa stilistica alla realtà fattuale (ecco i Dardenne) riuscendo a far scorgere la natura sistemica dell’emarginazione sociale insinuandosi tra le pieghe di ordinarie questioni relazionali : da un lato, intrecciando continuamente la ricerca di un linguaggio aulico adatto per il teatro con la naturale gestualità di un parlato tendenzialmente incazzoso e infarcito di termini gergali, e, dall’altro lato, presentando il contrasto tra l’impegno profuso dai ragazzi per entrare in sintonia con un ruolo da palcoscenico con la difficoltà con cui non riescono a trovare una vicendevole armonia nel teatro della vita, come il carattere identitario di personalità già fortemente tracciate nei  fondamentali tratti idiomatici ed antropologici. La denuncia di un certo male di vivere fa da sfondo sommesso all’evoluzione emotiva dei ragazzi, come un qualcosa che esiste ma che intanto è impegnato ad occuparsi d’altro, assorbito nell’eccezionalità dell’ evento teatrale che riesce a interrompere il monotono rincorrersi dei giorni. Tutta la parte finale del film è di grande impatto visivo, da quando Krimo e Lydia, in compagnia di Fathi, Nanou (Nanou Benhamou) e Frida (Sabrina Ouazani), si trovano in una zona isolata per cercare di chiarire la loro posizione sentimentale e una pattuglia di polizia effettua su di loro i propri controlli di routine in modo assolutamente arrogante e pregiudizievole, a quando Krimo è solo mentre si sta recitando la commedia in un clima di ritrovata armonia collettiva. Tra i due fatti c’è un vuoto narrativo che chiarisce meglio di mille parole ciò che il film tenta di suggerire, e cioè (sempre accompagnandosi all’opera di Marivaux) che il caso non esiste, tutto è già scritto e ognuno è destinato a rimanere prigioniero del proprio mondo. Come l’amore puro, quello che stando sopra le vicende sociali non dovrebbe mai impedire ad un ricco ed un povero di riconoscersi a vicenda. Quello che conosce Krimo, che per amore di una ragazza non ha saputo trovare le parole adatte per recitare a teatro un ruolo diverso da quello che gli è stato assegnato nella società. La sua identità è più forte dell’imitazione che di essa se ne può fare.

 

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