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Birdcage Inn

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Birdcage Inn

di EightAndHalf
6 stelle

La tartaruga di “Crocodile”, eliminata la tinta blu, apre una nuova storia di drammi e solitudini nella Corea al confine con il nuovo millennio. Con grande affetto nei confronti dei caratteri femminili, benché criticabili, Kim tenta un approccio meno disastroso ma pur sempre molto duro, guardando molto ai ruoli dei personaggi e alle ingiustizie che subiscono, ancora di più che alla trama, che si sviluppa lentamente annacquata in un’ora e quaranta. Il ritmo è cangiante, spesso discretamente veloce e scandito dai volti di personaggi che sembrano avere smesso di cercare alcun tipo di speranza. Rispetto ai due film precedenti il regista coreano abbassa le dosi di sangue e aumenta quelle di sesso, ripetitive e statiche, in cui il suo punto di vista focalizza le espressioni sofferenti della bella protagonista, che di notte lavora come prostituta in una locanda (della “gabbia per uccelli”) e di giorno passa il tempo in lunghe contemplazioni del mare (e di una strana costruzione arruginita a largo, molto suggestiva), nella pittura e nel disegno. Possiede una grande sensibilità, ma è costretta a subire mille e mille umiliazioni e ad accontentare un genere maschile bestiale, libidinoso e violento. Nessun’uomo, alla fin fine, si salva, a meno che non sia un giovane ingenuo, o scopra lentamente un sentimento, come altri personaggi maschili dei film di Kim. Per alcuni, si mantiene un tradizionale processo di formazione.
Rispetto a capolavori del futuro, questo terzo film di Kim ha però il fiato corto, e tenta di giustificare una certa ridondanza volendo inserire lo spettatore in un contesto disperato e tristemente ripetitivo, ma l’alternanza tra scene di sesso e scene poetiche (con tanto di musica ad indicarle) è artificiosa, e non ha lo stesso impatto di altre opere. Lo stesso finale, se non visivamente, non merita molto. L’unico elemento veramente interessante è il confronto fra i due personaggi femminili, uno gentile e inoffensivo, che si lascia violentare e anche impoverire da un ingombrante e violento protettore, un altro vergine e sulla difensiva, che non si concede nemmeno al fidanzato, un uomo benestante a cui lei non ha mai mostrato la casa. I genitori, acidi e irascibili, non tentano di migliorare la situazione, nonostante le insistenze della figlia, e rimangono come rassegnati in un contesto sociale (e urbano) sporco e decadente, privi di fiducia in un qualunque tipo di miglioramento, scarti della società che non esitano a sfruttare la gente non vicina a loro. Ma non sono personaggi disumani, nessuno in questo film lo è, e oltre alle due ragazze che costituiscono antipodi comportamentali, a incuriosire è questo curioso compromesso, mantenuto nonostante l’ingenuità dello stile di Kim, tra la violenza delle immagini e la palpabilità delle interiorità, strazianti e comprensibili, anche se non riescono a coinvolgere tanto proprio per l’artificiosità di come questi cambi sono realizzati. Curiosa l’immagine finale, e discrete alcune idee registiche, come l’ossessione per colori a tinte forti in contrasto col grigio dilagante (trovata stilistica in linea col contrasto fra carnalità e sentimento) o la ricorrente inquadratura che dal basso dell’ingresso della locanda va verso l’alto o viceversa, riuscendo a inserire il set principale della pellicola in un contesto urbano davvero riprorevole, in cui come i colori cercano di distinguersi varie umanità. 
 

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