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Throw Down

Regia di Johnnie To vedi scheda film

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La recensione su Throw Down

di supadany
10 stelle

Far East Film Festival 20 – Udine. Prima mondiale della versione restaurata in 4k.

Esistono capolavori immortali che tutti riconoscono essere tali e altri che hanno bisogno di una spinta per conquistare la visibilità che meritano e - di conseguenza - quell’amore incondizionato che è difficile negargli. Nel caso di Throw down, la riedizione in 4k curata direttamente dal Far East Film Festival permette di aprire una finestra su una perla assoluta, una lectio magistralis della poetica dell’immagine, ma anche sul fuoco sacro che anima i cuori puri. Una dimostrazione autorevole di come la narrazione lineare non sia necessariamente imprescindibile, di quanto una rappresentazione ispirata possa assumere un senso espressivo maggiore di miliardi di parole.

Il destino mette Sze To (Louis Koo), gestore di un locale malfamato e alcolizzato cronico, sulla traiettoria di Mona (Cherrie Ying), un’aspirante cantante che vorrebbe volare a Tokyo per giocarsi le sue chance di successo. Sulla loro strada finisce anche Tony (Aaron Kwok), un talentuoso judoka.

Sullo sfondo, c’è una sfida di judo che deve essere portata a termine.

 

scena

Throw Down (2004): scena

 

La realtà uccide. La fuga è una dimensione interiore. Una corsa a perdifiato libera dalle tossine. Un palloncino rosso intrappolato tra i rami di un albero non va afferrato, ma liberato per consentirgli di volare in cielo, laddove la forza lo spinge.

Throw down non ha la più pallida idea di cosa sia uno schema prestabilito, non ha alcuna intenzione di prendere in considerazione l’eventualità di aderire a griglie di comodo, perfettamente coerente con i suoi sconfinati detour, che rappresentano l’affermazione della libertà oltre ogni regola, in tutte le sue ammissibili forme.

Questo perché non può essere ammessa alcuna forma di controllo, ogni anima ha le sue emergenze e Johnnie To non fa altro che assecondare i tre protagonisti del suo film, come fossero dotati di una vita propria, impossibile da etichettare mediante scansioni consuetudinarie.

Una sensazione liberatoria che prende forma dalla loro presentazione, che soprassiede ogni descrizione dettagliata, per poi identificarsi autonomamente nella diramazione di sequenze incasellate con una grazia apollinea, che non si accontenta di un’esposizione esteticamente sopraffina, di suo scatenante un amore istantaneo.

Di fatto, Throw down inanella scene memorabili con un’immediatezza da far impallidire, delle composizioni che meriterebbero di apparire in un’ipotetica galleria d’arte dedicata a immagini in movimento. Schiacci il pulsante play e due fughe assumono significati subliminali, peraltro senza ricorrere ad alcuna forzatura narrativa, mentre un locale frequentato da scommettitori incalliti è ripreso con un’armonia ammaliante in mezzo a un vociare che diventa più chiaro di quanto potrebbe essere e un bagno occupato genera un siparietto che trasmette un’allegria gioiosamente invadente.

Talvolta, si sottostima la regia, ma un’opera come questa andrebbe osservata anche solo per capire come una scena possa assumere una vita propria, perché ogni movimento può essere studiato minuziosamente e allo stesso tempo apparire come il più disinvolto e salutare del mondo.

Questa fluttuante e fiammeggiante delicatezza spezza le catene delle regole e il montaggio è di una dolcezza infinita, due peculiarità perfette per descrivere esseri umani invasi dai sogni e segnati da una dimensione che non sembra voler offrire loro l’occasione di conquistare la gloria che anelano con un’energia stridente rispetto al mondo che li ospita.

Un’opera virtuosistica, che ammalia occhi, cuore e cervello senza desiderare nient’altro che essere se stessa, amando alla follia i suoi tre protagonisti.   

È così che si sentono suonare le campane.

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