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Il resto di niente

Regia di Antonietta De Lillo vedi scheda film

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Lehava

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La recensione su Il resto di niente

di Lehava
8 stelle

Una ragazzina scalza regge una tazza. Entra in un ambiente di straordinaria bellezza, dai soffitti barocchi e le tarsie intagliate. Laggiù, seduta in una agghiacciante solitudine, una donna dai capelli grigi. Lo sguardo a tratti smarrito, a tratti sereno, rassegnato. Aveva chiesto un caffè, come ultimo desiderio prima dell'esecuzione. Ed un paio di mutandine: gliele hanno strappate per dileggio. E no, i suoi quarti di nobiltà non sono mai stati riconosciuti quindi non può sperare nella decapitazione. Pensa forse al suo caro Gennaro: lui è un Serra. Il padre chiuderà il portone storico della residenza in segno di lutto e protesta: e così rimarrà, per secoli. Ma questo lei non lo sa, ora. Ha ben altro per la testa: sarà impiccata. E tutti lo sanno cosa succede all'utero di una impiccata: "esce" così si dice. Sanguina. Lassù, appesa, con le gambe aperte. Aveva chiesto le mutandine, implorato di averle. Non gliele hanno date. Il caffè, però sì. Peccato: "Beh, a quel punto sarò già morta." "Che rimane? Niente. Il resto di niente." E in quel volto, solo a mala pena solcato dalle rughe, passa dolente una vita intera, a sprazzi irregolari e inconcludenti, senza un vero centro, e forse, senza un senso. Il resto di niente.

Lenòr si rivede bimba, quel giorno che con tutta la famiglia arrivarono a Napoli in carrozza. L'appartamento preso in affitto in centro: stranieri e nobili, ma poveri in canna. Come tanti altri, in una città caotica e tanto affascinante quanto incomprensibile dove il popolino, la piccola borghesia lavoratrice, i grandi patrimoni si mescolano nella grande via centrale. E Ferdinando sbadiglia annoiato mentre Maria Carolina pensa a comandare, quasi con lungimiranza. Nel salottino modesto, papai ci tiene ad intrattenere rapporti con l'intellighentia locale, e la giovane protagonista si crea presto un proprio spazio fatto di poesia e piacevolezza nella conversazione come nell'aspetto. Incontra Vincenzo Sanges, bello e realista: l'amico di una vita. Forse qualche segreto amore adolescenziale, di sicuro la passione per la parola. Letta e scritta. Il fervore di una testa in movimento. Un cuore pronto ad accogliere. La necessità economica che porta ad un matrimonio combinato, affrontato con l'incoscienza e la speranza della gioventù. Lo scontro terribile con una realtà fatta di violenza, prevaricazione, squallore e il dolore più grande. Quello che non ti aspetti e che nessuno si meriterebbe mai. Atroce. La disperazione più innominabile: la perdita di un figlio. Come si può credere di sopravvivere? Da lì in poi una nuova esistenza, una nuova Lenòr: "La libertà costa molto cara" lei disse. "Io adesso sono libera….Ma sono sola. Non ho più nessuno. Questo è il prezzo della libertà che mi ritrovo." [E disse Vincenzo] "D'altra parte non c'è scampo, Lenòr. Non sei tu che decidi. Non sei tu che scegli. Noi viviamo in un caos......Noi facciamo parte di questo tritume cieco. Senza sapere cos'é....Mi ribello e non credo più nemmeno al suicidio." ....Lei era seria, rifletteva: " Ci ho pensato anch'io, almeno un paio di volte. Ero disperata, intrisa di dolore, ritenevo non avrei potuto provarne di più. Invece l'idea di quella cosa me ne procurò ancora. Provavo una sorta di terribile pietà universale: per me stessa, per tutti..., mia madre, il mio bambino, addirittura per gente vista in un lampo. Quasi tutto dipendesse da me, avesse vita perchè ero viva io...." [E disse Vincenzo] "Tu sei donna, Lenòr. Una donna non può che sentire così. Perchè essa E' la vita. Deve dare vita." Rispose un po' dura: "Adesso io vita non ne posso più dare." "Ma l'hai data. Il tuo misterioso dovere l'hai fatto." "E allora, potrei chiudere...?" "Perché? Ora puoi fare come gli uomini. Che partoriscono con la testa. Con la bocca: parole. In mancanza di meglio." La frequentazione sempre più stretta con le frange estreme delle correnti progressiste. L'amicizia con il giovanissimo Gennaro. La separazione dal marito. La Rivoluzione Francese, i festeggiamenti in riva al mare, il carcere, e poi l'arrivo dei francesi in città ed in quell'inverno del 1799 la Repubblica. "Il monitore" e la battaglia per l'educazione delle massa analfabeta. I dubbi, e poi il crollo, la Restaurazione e la repressione.

La storia che all'improvviso si fa rituale, dialettica, analisi, approfondimento ed auto-introspezione. La sua parabola personale intrisa di entusiasmo, sofferenza, casualità diviene, senza neppure volerlo, ragionamento serrato sul senso laico della vita e sul diritto alla felicità individuale e collettiva. Sentimento, questo, che positivisticamente non può prescindere dalla libertà. Libertà che si pone come principio primo e finale di un rapporto fluido con il potere: la brama del potere e la lotta contro il potere, per diventare forse, ancora solo e soltanto, un altro potere. La responsabilità del potere: gli ideali astratti e la loro realizzazione concreta. Il potere deflagrante della comunicazione, che più distrugge di qualsiasi cannone. Il modello, la fonte, l'ispirazione è evidentemente "La presa del potere da parte di Luigi XIV" di Robero Rossellini. Ma Antonietta De Lillo è una donna: e si vede, si sente. La sua controparte cinematografica si chiama Eleonora Fonseca Pimentel. Il potere non può essere quindi solo questione teoretica. O visceralmente politica ed universale. Il potere è anche e soprattutto faccenda intima e carnale. Un difficile dialogo sociale, prima di tutto una ricerca instancabile di equilibrio fra esseri umani. Un messaggio di straordinaria modernità ma sorprendentemente lontano da modernismi improbabili. Perché Lenòr è e resta sempre, ostinatamente, dama del suo tempo: sentimentale e persino fragile, orgogliosa ed inflessibile, pudica e disillusa, ingenua e astratta. "....Ma tu hai mai desiderato d'essere felice? Almeno una volta in vita tua?" [Risponde Graziella] "Filice? E chi è filice, signo'? Tu lo sai che vo' dicere?" Per risponderle impastocchia pensieri e parole insulse. Preferisce mutar discorso.…Graziella la guarda con protettiva dolcezza: "Tu sì comme a 'na creatura, signo'. Liegge, scrive, parle, ma a me me pari proprio 'na creatura.". Ha ragione, pensa, sconcertata. Si sente piccola, inesperta, bisognosa d'aiuto persino da lei, che è tanto più giovane, sebbene sembri vecchia. Eppure ho conosciuto vita e morte, il mio cervello ha faticato tanto. Pe approdare a che?" Non c'è affanno, non ci sono grida o afflizione scomposta. Tutto pare leggero: è lo sguardo cristallino di Eleonora sopra il mondo che scorre. Che Antonietta De lillo mutua: le scene più cruente ci vengono risparmiate. Sono suggerite, però: perchè la speranza non cancella la consapevolezza inesorabile. Però la addolcisce. Lo spettatore pare accompagnato verso una cupa accettazione che non vuole dare nessuna lettura storiografica, e neppure una validità etica o morale alle azioni. Tutto rimane racchiuso in un universo personale: quello della protagonista. Che non crede in un "senso" più alto: chiamasi esso Dio o Fato o chissà che altro. Solo fatti, solo emozioni, solo decisioni, solo coincidenze, solo vita: presa per quel che è, finché c'è. Al frate che vorrebbe confessarla, prima dell'esecuzione, Lenòr dice: "Non mi serve nulla. Volevo solo una tazza di caffè e l'ho avuta". E la bimba scalza si trasforma, all'inizio che è la fine, in Eleonora bambina.

Liberamente tratto dal romanzo di Enzo Striano, "Il resto di niente" coglie con grande efficacia l'essenza del romanzo storico, ma aggiunge in più riflessioni cinematografiche importanti. Scelta coraggiosa ed azzeccata quella di Maria De Mereidos che recita in italiano con accento portoghese e non disdegna timide uscite dialettali. Non del tutto verosimile eppure neanche assurdo considerando l'ambiente familiare del personaggio storico, la sua infanzia romana, la consuetudine (tipica della nobiltà prerivoluzionaria) al francese, lo studio di latino e greco, inglese e spagnoli stentati, il rammarico per un pessimo napoletano. L'effetto è straniante. Così come, altrettando destabilizzante, il tono di voce morbido che poco ci si aspetta da una "eroina". Ma è proprio l'anti-romanticismo di Eleonora, la sua compostezza, a rendere il personaggio così sfaccettato e forse, soprattutto per il pubblico maschile, misterioso.

Regia marcatamente statica e teatrale che privilegia i dialoghi, gli ambienti chiusi, i piani medi (non esistono, mi pare, campi lunghi se non forse uno sul mare) anche per ovvi motivi di budget (resta comunque un film a basso costo, per essere storico. Ed infatti non esistono scene di massa né "ricostruzioni" ambientali). Le soluzioni grafiche (il richiamo ai burattini) risolvono passaggi non sempre immediati nella narrazione, che di sicuro non risulta "divulgativa" quanto piuttosto specialistica (difficile entrare nel film se non si conosce bene il quadro storico e culturale). Eppure la sceneggiatura è uno dei punti forti: la disomogeneità è voluta, così come i repentini slittamenti pubblico-privato, emotivo-politico, descrizione-narrazione. Ci sono alcune libertà rispetto al testo, ma tutte motivate da ragioni "cinematograficamente ragionevoli" (sacrificato il rapporto con Gennaio e cancellato il primo amore Primicerio: ma lo spazio a disposizione era veramente troppo poco. Rimodellata Graziella: funzionale allo svolgimento. Etc...): la materia era ed è complessa, e con i mezzi a disposizione credo si sia riusciti ad ottenere il miglior risultato possibile. Bella la fotografia. Meno bene invece il sonoro soprattutto per quanto riguarda la colonna sonora: sul serio, troppo scontata. Non aggiunge nulla, anzi, tende a rallentare un'opera già meditabonda di suo.

Splendide le locations ed il modo raffinato in cui sono stati rivitalizzati alcuni tra gli ambienti turistici partenopei più conosciuti.

 

Un film che mi ha fatto piangere lacrime copiose, altro che commozione! Che mi ha fatto ripensare al significato che, per alcuni fra noi, hanno verbi come volere e potere. Il confine fra i due. Il senso di ciò che accade, se senso esiste. E mi sono ricordata, alfine, di un frase letta chissà dove e attribuita al buon R. L. Stevenson: "Essere ciò che siamo, diventare ciò che siamo capaci di diventare, questo è il solo fine della vita."

 

 

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