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Japón

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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La recensione su Japón

di cheftony
7 stelle

Va bene, ma prima mi dica perché è venuto in questo posto.”

D'accordo. Per stare tranquillo.”

Perché in città ci sono molti problemi, vero?”

Sì. Però non è solo questo. Serve serenità per lasciare le cose a cui siamo abituati, ma che in realtà non vogliamo più. Bisogna saper eliminare ciò che non è necessario.”

Però è meglio aggiustare che buttare via o no?”

Sì, ma ci sono cose che non si possono aggiustare. Ed è meglio buttarle piuttosto che vivere aggrappati ad esse solo per abitudine.”

 

Da qualche parte in Messico, un uomo (Alejandro Ferretis) si allontana dalla città e tenta di farsi accompagnare nel posto più sperduto possibile con l'intenzione di suicidarsi.

Un villaggio sembrerebbe poterlo accogliere, ma infine lo dirotta verso l'abitazione di un'anziana vedova, Ascen (Magdalena Flores), che si presta a far alloggiare gratuitamente l'uomo nel suo granaio, una sorta di pilastro della sua debole e isolata casetta in pietra.

Con camicia a quadrettoni, musica classica in cuffia e pistola avvolta in abbondante stoffa, l'uomo temporeggia nell'attesa di luogo e momento adatti a congedarsi dal mondo in pace, ma l'imperiosità della natura e la gratuita bontà di Ascen sembrano silentemente soverchiarlo. Neppure l'incombente minaccia di un nipote di Ascen, che si presenta per reclamare il possesso del granaio, lo smuove dai suoi nuovi propositi, tutti più inclini ad abbracciare una vita da cui si sentiva escluso.

 

 

Il messicano Carlos Reygadas gira e autoproduce il suo lungometraggio d'esordio “Japón” a trent'anni, eppure il suo approdo al mondo del cinema (in Cinemascope, peraltro) giunge tardivo: laureato in legge con specializzazione in diritto internazionale, lavora prima a New York e poi a Bruxelles, dove però nella sua mente germina in maniera definitiva l'ambizione di diventare regista, facendo tesoro ed emulazione delle visioni dei suoi amati Tarkovskij, Dreyer, Antonioni (e altri ancora).

Opera prima lodata a molti festival (Cannes incluso), “Japón” mostra un Reygadas dalla mano tremolante e al contempo assai sicura, di cui fa sfoggio con piroette, inquadrature audaci e lunghi piani sequenza. La riprova di una certa sicurezza nei propri mezzi è data dal meraviglioso piano sequenza finale, corollario degli ultimi 12 minuti di film totalmente privi di dialoghi e enfatizzati dalle musiche di Arvo Pärt, maestro estone del minimalismo.

Certo, resta una visione tutt'altro che semplice: il rapporto con la natura e il paesaggismo di Reygadas riescono a rendere evocativa anche una pellicola dalla fotografia sgranata e dalla gamma di colori a dir poco ristretta, ma è la materia che, pur scarna di accadimenti, crea difficoltà nell'approccio. Un uomo anonimo, sfiduciato e avulso, cerca luogo e spirito adatti a suicidarsi, trovando sul suo cammino un'anziana, figura catartica, pura e generosa, che offre un approccio nuovo alla vita persino a chiunque la sfrutti e la umili. L'aspirante suicida stesso, che recede dal suo proposito, non sfugge: il sesso fra lui e la donna - meccanico, volgarmente proposto e ispirato da un rapporto equino - è privo di amore, è egoismo, è abbandono sacrificale e comprensivo di Ascen ad una pulsione abietta e convenzionale.

Qualche associazione e qualche “indizio” risultano francamente un po' scolastici per tempi e modi, ma il cinema di Reygadas fin dagli esordi si sottrae alle interpretazioni: l'uomo che cerca la morte e trova la vita è una storia, né più né meno, per quanto il regista messicano ci tenga ad esprimere il suo perentorio disgusto per il cinema narrativo; storia veicolata attraverso attori non professionisti, affinché i personaggi non siano interpretati e riproducibili, ma effettivamente siano. Impagabili, dunque, entrambi gli esordienti protagonisti, cioè l'anziana Magdalena Flores e Alejandro Ferretis, davvero claudicante per un attacco di poliomielite occorsogli da piccolo e misteriosamente massacrato nel 2004 nella sua abitazione, insieme al 24enne compagno.

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