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Dopo mezzanotte

Regia di Davide Ferrario vedi scheda film

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La recensione su Dopo mezzanotte

di giancarlo visitilli
4 stelle

“Il cinema è un’invenzione senza futuro” diceva quel padre che generò i famosi fratelli Lumiere. Sembra che il regista lombardo, Davide Ferrario, abbia fatto suo questo sentimento e si sia messo a disposizione di un mezzo che ormai (è vero!), specie per noi italiani (checchè se ne possa dire del tanto cinema italiano… Andò staje?), non abbia null’altro da raccontare. Dopo mezzanotte non è un brutto film, ma è un film brutto per la denuncia che sottende: la mancanza d’idee e semplicemente il ricordo di “storie come la polvere” nella mente di questi beneamati registi iper-cinefili (da Bertolucci di Dreams in giù). Infatti, Dopo mezzanotte è l’atto d’amore di Ferrario per Keaton, Pastrone, Chaplin e, in genere, del museo (in senso metaforico e figurato) del cinema.
Tanto che Martino lavora come custode notturno della Mole Antonelliana, dove ha sede anche il Museo del Cinema. Quando non lavora, passa le sue giornate a guardare vecchie pellicole di film muti, in una specie di abitazione che si è ricavato da un locale in disuso all’interno dell’edificio. È qui che il suo destino s’incrocia con quello di Amanda, in fuga dalla polizia e dallo squallore della sua precarietà quotidiana, fino a che il giovane le offre riparo dopo che ha versato dell’olio bollente addosso al padrone del fast food, perché l’ha licenziata da un momento all’altro. La convivenza fa si che tra i due si instauri un rapporto di reciproca confidenza e quando per Amanda arriva il momento di tornare dal fidanzato, che ‘per mestiere’ fa il ladro, e alla sua solita vita, lei si rende conto che le cose non sono più come prima.
Molto diverso dai film precedenti (Tutti giù per terra, Guardami, Figli di Annibale) Ferrario non smette comunque di sperimentare, non è un caso perciò che sia stato l’unico italiano ad essere invitato due volte al Sundance Film Festival. Un continuo interscambio tra il digitale e la pellicola, servono al regista per raccontare il cinema oggi, in cui il passaggio alla pellicola è descritto come un sogno: durante tale passaggio la città dorme. E quando si risveglia c’è sempre una continua interferenza dello e nello sguardo, che passa attraverso un’immagine sgranata ed un’altra ad altissima definizione. Nuove pellicole con didascalie dal sapore antico: l’immagine esemplare di un cinema che non sa più raccontare storie nuove, ma solo produrre remake di remake. Il racconto è affidato all’inconfondibile e bravo Silvio Orlando, amico di vecchia data del regista. Un’unica location, in cui ha visto cimentarsi una piccola troupe, e tre giovani attori anch’essi “della compagnia Ferrario”, che s’è anche autoprodotto il film, costato comunque pochi euro.
Desta un po’ di perplessità il fatto che il film, nonostante sia distribuito dalla Medusa (gruppo Fininvest) il cui padrone è quell’uomo che in questi giorni vediamo ancora una volta sorridente di promesse fasulle su tutti i ‘cartoni’ pubblicitari elettorali (anche nel film!), Ferrario non disdegni a mettere sulle labbra del protagonista “Guarda te, se questa è l’ultima immagine che vedo, prima di morire…”. Ma basta poco per capire: Ferrario è stato anche uno dei documentaristi italiani del G8, destinato, per questo, ad essere considerato una ‘novità’ nel panorama italiano, nostro malgrado. A differenza di chi “va al cinema perché interessato al personaggio”, lo stesso regista si fa primo fra quegli spettatori che preferiscono che il mondo sia “filmato così com’è”. Perciò la predilezione per la periferia dei quartieri dormitorio della Torino, capitale d’Italia ai tempi dell’unità; il mondo sempre visto di passaggio dei ‘marocchini e vu’ cumprà’. Il tutto all’ombra della Mole, in parte del cinema, perché “il cinema è finzione, in quanto tu vedi le cose come loro (i registi o chi per loro) vogliono che tu le veda”.
Intanto, noi stiamo dalla parte di chi, come racconta lo stesso regista nel film, va al cinema perché spera che li si racconti storie nuove, nonostante tutte siano destinate a dissolversi come la polvere. Le più belle, però, lasciano sempre il segno. Lo dimostra il museo all’interno della Mole Antonelliana: 100 anni di cinema, ma solo di quello per cui val la pena conservare nella memoria.
Giancarlo Visitilli

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