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Prova a prendermi

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Prova a prendermi

di FilmTv Rivista
6 stelle

Frank W. Abagnale se ne andò di casa a 16 anni, dopo che i suoi genitori avevano divorziato, e scoprì che poteva riuscire a sopravvivere usando il suo fascino, la sua intelligenza e le sue qualità camaleontiche: falsificando assegni, distraendo l’attenzione delle giovani cassiere con imprevisti inviti a cena, girando il mondo spacciandosi per un giovane pilota della Pan Am. In quattro anni (tra i 16 e i 21), incassò più di due milioni e mezzo di dollari e si finse, sempre con successo, pilota, medico, avvocato. Braccato dalla Fbi, fu arrestato in Francia, riportato in America dai federali e, dopo cinque anni di carcere, accettò di collaborare con loro come consulente per i casi di frode e contraffazione. La sua è una storia di un’America d’altri tempi, di quando si poteva andare su e giù dagli aerei e dalle frontiere senza particolari controlli, di quando il mito del truffatore seducente proiettava la sua ombra lunga e irridente sull’ordine apparente dell’american way of life e scompaginava la fierezza delle forze dell’ordine. Infatti, si svolge negli anni ’60, ricostruiti da Steven Spielberg, dal direttore della fotografia Janusz Kaminski e dalla scenografa Jeannine Oppenwall con entusiastica adesione allo stile e all’immaginario dell’epoca. I colori scintillano, lucidati nella plastica, nel vetro e nel pop, le superfici scivolano, squadrate, “svedesi”, le gonne delle ragazze salgono e i pantaloni, le scarpe, le giacche dei ragazzi si fanno più affusolate. Il giovane Steve McQueen che corre in Porsche sui saliscendi di San Francisco occhieggia dietro l’angolo. Spielberg evita le trappole più ovvie della ricostruzione di un periodo che è stato spesso a un passo dal kitsch (anche cinematografico) e che avrebbe potuto facilmente sconfinare nell’elegia. Conosce gli anni su cui sta lavorando, e sa che solo l’apparenza dell’America era più felice, che sotto la superficie dinamica dirompevano già le contraddizioni: Kennedy era morto nell’anno in cui il film comincia (il 1963), la Cia e l’Fbi erano già immerse nel calderone dei grandi complotti, la paranoia stava per dilagare. Evita i vezzi dell’epoca come lo split screen e tiene sotto ferreo controllo il citazionismo nostalgico: le serie televisive e gli eroi del cinema entrano in gioco perché funzionali alla narrazione, perché “Il dottor Kildare”, “Perry Mason” e James Bond servono a Frank come modelli per le sue successive personificazioni. Così, la storia di Frank Abagnale (che è, nella realtà e nella finzione, una storia “a lieto fine”) diventa un’ideale parabola americana. Comincia con il crollo impietoso del Sogno (il fallimento del padre di Frank – un grande Christopher Walken - pesa su tutto il film con la sua sconcertata amarezza e con la sua disarmata voglia di ricominciare), prosegue con l’ebbrezza incosciente della truffa (della possibilità di diventare chiunque si voglia, di ottenere lauree con sole tre settimane di studio, di salire con un balzo in cima alla scala sociale – ma non era questo il vero Sogno?) e finisce con lo sberleffo del passaggio alla Legge, che ha un bisogno disperato di truffatori per agguantarne altri. Certo, all’apparenza è una storia felice, ma si tratta di una felicità costruita comunque sull’inganno, sulla perdita della libertà e dell’innocenza. Frank Abagnale sceglie il male minore: da inseguito si trasforma in cacciatore. Come Pat Garrett, ricordate?, il paese invecchia e Frank vuole invecchiare con lui. E se lo spiegamento di forze che dà la caccia a Frank non ha il clamore mediatico degli inseguimenti di “Sugarland Express” (un altro “fatto vero” da cui Spielberg prese spunto per il suo secondo film), tuttavia trasmette un simile, ridicolo senso di sproporzione e impotenza: la scena in cui Frank, circondato da otto aspiranti hostess, passa sotto il naso di un plotone di agenti dell’Fbi vestiti come i Blues Brothers ha il ritmo, il passo, l’ironia dissacrante del cinema demenziale che proprio Spielberg e John Landis inventarono. Prendetelo, se potete, lo spirito caustico e non domato, che circola sotto l’involucro di un ottimismo solo apparente.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 6 del 2003

Autore: Emanuela Martini

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