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Le armonie di Werckmeister

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Le armonie di Werckmeister

di logos
9 stelle

Opera straziante, realissima e lirica, violenta e struggente, esistenziale e metafisica. Se vogliamo parlare di fenomenologia trasposta nella settima arte, allora in questo film la si vede all’opera, già dall’inizio, con riprese in sequenza dove tutto fluttua liberamente, in un modo realissimo eppure al tempo stesso onirico, dove, prima di andarsene dalla bettola, i clienti ubriachi insistono perché il giovane e innocente Valuska presenti il suo gioco, cioè la raffigurazione giocosa dell’eclissi, facendo interpretare a uno il sole, all’altro la terra, all’altro ancora la luna, in un vortice di corpi che a un certo punto nella loro goffa armonia si arrestano, perché è il momento dell’eclissi solare, dove tutto scompare nel buio, e forse chissà, tutto se ne va nella morte, e mentre viene descritta la possibile catastrofe attraverso le parole lievi sussurrate di Valuska, con il suo sguardo perso nel cielo della sua mente, esordisce la musica dolcissima e struggente (di Mihály Víg) che fa da contrappunto alla fine cosmica. Forse è tutto davvero finito? No, il sole si riprende, l’oscurità svanisce e i pianeti ubriachi ricominciano a danzare, ma il barista dice basta, manda via tutti i clienti, che sfilano uno ad a uno all’uscita, mentre Valuska si rivolge al barista dicendo che la sua rappresentazione non era ancora finita, e lo dice con un tono sprezzante, un tono che non gli rivedremo più; ma lo vediamo andarsene per le vie buie e fredde del suo paesino, fino a scomparire, mentre la musica continua a suonare, senza più presenza umana nello schermo.

 

Questa musica che continua al di là degli uomini, che non riescono, per quanto vogliano o credano, a raggiungere la sua armonia, è già un cenno riassuntivo dell’opera, che è anche un’opera sulla fatica degli uomini, sul loro peregrinare invano tra altezze e cadute, senza mai elevarsi alla totalità dell’essere, che nelle sue lontananze metafisiche fa avvertire quanto quella musica sia un congedo dagli uomini, che non sanno comprendere che la trascendenza è in ogni luogo e tempo, ma non hanno occhi per vederla come, invece, il giovane Valuska.

 

Nella notte che avvolge questa località, entra di soppiatto un grande container, che è poi il circo viandante, nel quale viene presentato il relitto della più grande balena del mondo, ma accanto a questa meraviglia ci sarà pure la performance del principe, con i suoi discorsi infiammanti. Nessuno sa di questo principe, la popolazione locale ne parla con disprezzo, timore e sotterranea reverenza; si dice che pesi 10 chili, che viene solitamente accompagnato in braccio dal direttore del circo, ma il suo carisma è incontenibile, aizza le folle, anche se non si sa come e per quale scopo eserciti un tale potere sulle masse; fatto sta, che quando passa di villaggio in villaggio, capitano strane cose, campanili suonano improvvisamente, la violenza inaudita si sprigiona dagli uomini, e i più avveduti della comunità sono costernati per questa presenza inquietante e del circo con la sua balena, come se non bastasse già la crisi economica con il lavoro che manca, con la conseguente povertà e sofferenza già presenti in questo villaggio-mondo. Ci sarebbe molto da dire già sulla musica, sulla balena, sul principe...

 

Parliamo intanto della musica. Nel frattempo, infatti, Valuska, dopo esser stato all’osteria e terminato il suo giro postale, dove del resto ha sentito tutte quelle voci sugli eventi inquietanti che stanno accadendo, va a rimboccare le coperte del suo devoto musicista filosofo Eszter, il quale si sente sconfitto di quanto è accaduto alla musica. Se con i Pitagorici la musica poteva ancora appellarsi a un fondamento, quale espressione dell’armonia cosmica, e perciò essere considerata di natura divina, piano piano, col tempo, essa è stata soggiogata dalla potenza umana della tecnica, la cui svolta acceleratrice è stata impressa proprio dal musicista tedesco Andréas Werckmeister del 17° secolo, che se da una parte considerava la musica come un’armonia pari al movimento degli astri, d’altra parte, con i suoi studi, ha finito per sottrarle il fondamento metafisico inappellabile, per ridurla a una questione tecnica, tramite il suo sistema in ottave. La musica, da riflesso divino, imperfetto, diventa perfetto artificio degli uomini, lasciando però l’esistenza aperta alle soluzioni tecniche, con il nichilismo conseguente. Queste amare considerazioni del musicista filosofo Eszter vengono riprese con ineguagliabile maestria, mentre sullo sfondo la presenza devota di Valuska colora la ripresa di un’atmosfera conturbante, inquietante, come se proprio su queste considerazioni possa nascondersi una delle chiavi interpretative del film. E in effetti quel che vuole dirci Tarr è che nel mondo attuale, completamente soggiogato dalla tecnica, lo spazio verso la trascendenza è annichilito, non è più possibile parlare di totalità, tutto è frammentato e non c’è più niente sopra il cielo che non possa diventare “umano, troppo umano”. Ma la musica continua, quella musica che sembra provenire al di sopra dell’uomo e che abbiamo già udito nel primo meraviglioso piano sequenza quando Valuska spariva nel buio della notte, la sentiremo ancora per tre volte, proprio nei punti nodali dell’opera.

 

Veniamo così alla seconda entrata musicale, e ne approfittiamo per parlare del circo, della balena e del nano. Prima di rientrare a casa Valuska decide di andare a vedere il circo nella piazza del paese. E' tutto un piano sequenza che riprende uomini sparsi, in silenzio, con volti minacciosi, e al centro della piazza troviamo un grande container che il direttore apre con un rumore assordante. Solo Valuska decide di pagare il biglietto e di entrare nel container (il circo) per contemplare la balena. E proprio in questa contemplazione, si ha la seconda entrata musicale, ed è una scena davvero struggente: perché negli occhi di Valuska, del giovane e innocente Valuska, si manifesta tutta l’intensità di questa musica dolcissima, malinconica, struggente, ma anche rigeneratrice e conciliante. La carcassa della balena è lì, di fronte a Valuska, che la scruta in tutta la sua ampiezza fino ad arrivare al suo occhio muto, che sembra dire tutto in quella stessa musica, come se quell’occhio della balena e la balena stessa fossero la figurazione dello scempio di ciò che l’umanità ha fatto di se stessa e della vita in generale. La balena è la vita stessa martoriata, che gli uomini hanno calpestato e tradito nel loro cuore ormai arido, è la totalità infranta e quel che ne resta, come museo da offrire al pubblico, al solo prezzo di un biglietto di ingresso. Possiamo forse azzardare che la balena sia la morte di Dio, e il nano principe l’annunciatore della sua morte, uno Zaratustra da far inorridire lo stesso Nietzsche; il nano principe, che mai vedremo come spettatori se non nel riflesso della sua ombra, non si è ancora mostrato alla folla, mentre la folla lo attende sempre più fremente, perché oramai questa folla non è altro che l’umanità in balia delle sue pulsioni distruttive, che non ha più alcun valore in cui credere, ed è pronta all’azione distruttrice, pur di sentirsi ancora viva. Ma forse questo nano non è neanche uno Zaratustra impazzito, è la concrezione della pulsione di morte, che si fa largo quando Eros è logoro, perché in qualche modo si avvale di ciò che resta di Eros, ma per piegarlo al suo volere ceco distruttivo, dal momento che l’unico modo possibile per riprodurre la totalità infranta è distruggerla in un furore dionisiaco, unico modo perverso per riaffermare il senso del divino in una deflagrazione senza più argini, trascinando con sé, nel suo annientamento definitivo, tutta l’umanità, che così va fiera e felice incontro alla morte, senza la paura di quelli che pensano, e che pensano perché hanno paura.

Il tutto, condito in quella musica meravigliosa, mi fa pensare quanto qui il regista sia stato sapiente nell’evocare la shoah, e renderla ancora più agghiacciante con quella musica, che per la sua liricità non è circoscrivibile in un tempo definito, ma pare ergersi su tutti i tempi, su tutta la storia, non solo su quella passata ma anche su quella veniente, inducendo lo spettatore a una commozione che forse, almeno per me, non può essere descritta perché mi mancano le parole per dirla.

 

Tornato a casa, Valuska deve vedersela con l’ex moglie del musicista filosofo. Con incedere discreto e anche marziale gli dice che non c’è più tempo. Le forze oscure scatenate dal nano stanno mettendo a rischio la comunità, e perciò Valuska deve convincere l’anziano musicista filosofo di assumersi l’incarico simbolico di diventare presidente dell’ordine di emergenza contro queste forze, altrimenti sarà condannato a vivere di nuovo con lei. Valuska dopo tentennamenti si lascia convincere e a sua volta convince anche il musicista. Si tratta di un atto formale, ma quanto basta per preparare un vasto dispiegamento di polizia per restaurare l’ordine nella comunità-mondo. Compiuto l’atto formale, Valuska riceve un altro ordine da parte di questa donna, di andare a vedere cosa sta succedendo in città, capire che cosa si sta muovendo e poi riferire. Va di nuovo nella piazza, la folla di prima pare essere ancora più inferocita, un uomo lo ferma e gli chiede con veemenza che cosa vuole, lo costringe a bere, ma Valuska si svincola, e piano piano rientra di nascosto nel container. Qui abbiamo finalmente la ripresa del nano, che parla una lingua incomprensibile, tradotta da un intermediario contro il direttore del circo. Il direttore non vuole più aver a che fare col nano, perché il nano dice cose assurde, controproducenti all’immagine stessa del circo. Ma il nano, di cui scorgiamo soltanto l’ombra, continua a ribadire in modo meccanico che non ha importanza, che lui farà quello che vuole, perché tutta la folla ormai sa che la totalità è infranta, non esiste, è una bugia, e dunque la totalità sarà realizzata nella sua distruzione, e tutto verrà distrutto, così come deve essere.

Valuska scappa terrorizzato, finalmente avverte che gli eventi precipitano, la sua innocenza è messa a dura prova. Intanto, mentre lui è in fuga, sullo sfondo iniziano ad avvertirsi in modo nitido i primi fragori della violenza collettiva.

 

Segue la lunga marcia della folla oramai ipnotizzata dal nano, che avanza facendo irruzione nell’ospedale, colpendo a morte malati, spaccando letti e mobilia, stralciando documenti, il tutto senza musica, solo lunghi piani sequenza di uomini brutali, ma anche goffi, nel picchiare, distruggere, come se per loro fosse un’esperienza estranea, che non hanno mai compiuto prima, ma che al tempo stesso li riscatta, li rende euforici e onirici. E’ il momento più crudo, perché l’irruzione violenta viene ripresa nella sua sconcertante naturalità, e tutto ma proprio tutto, in senso fenomenologico, entra nella ripresa, ed entra per quello che è: un uomo ad esempio apre uno scaffale, toglie tutti i documenti, e poi gli dà un colpo per richiuderlo, come se anche chi compie violenza non può del tutto togliersi di dosso l’abituale quotidianità di richiudere ciò che ha aperto. E questa ripresa, come tante altre, è davvero disarmante, pazzesca, crudele, grottesca e sconcertante, perché non è altro che un frammento di realtà (la violenza) ma colto nella sua tipicità, senza neanche pulirlo da elementi estetici disturbanti che la rendono meno spettacolare, e perciò diventa manifesto di un realismo sapiente, che sembra uscire dallo schermo. Di tutto un tratto, tra mobili fracassati, pazienti tirati giù dal letto, armadi rovesciati, viene levata una tenda che copre i servizi igienici, e viene ripreso un vecchio immobile, nudo, scheletrico, impassibile, e proprio in quell’istante ricomincia la melodia, a partire dall’immagine dell’anziano attorniato dal male degli uomini. Ora tutto si ferma, gli uomini arretrano, se ne vanno, in una bellissima sequenza, come zombi, inseguiti dalla musica in sottofondo, che si posa sul primo piano di Valuska, nascosto nell’ombra, testimone di tutto quel disastro.

 

Vediamo poi Valuska correre per il paese deserto, scorgere il suo vicino ucciso, e mentre rientra in casa la moglie del vicino lo esorta a scappare, perché l’ordine poliziesco sta cercando anche lui, anche se non c’entra niente. Ma perché? Il film non ce lo dice, ma Valuska lo sa. Egli, nella sua innocenza, si è prestato al gioco della moglie del musicista, è stato, a sua insaputa, lo strumento per attivare un potere tremendo sulla comunità, che ha ormai ha la legittimità di fare piazza pulita di tutta una popolazione che si è lasciata ipnotizzare dal nano. Valuska scappa con il cuore in gola, vedrà l’ex moglie del musicista dare ordini, ai soldati, di pianificazione strategica sulla mappa del territorio, la vede insistere gentilmente nel colpire un certo luogo, che poi si rivelerà essere proprio la casa del musicista filosofo. Valuska oramai sa di essere stato raggirato, la sua innocenza è perduta, lo vediamo scappare per i binari di un treno, ma oramai tutto è sotto il controllo dell’esercito, è uno strano elicottero, minaccioso e di soccorso, fermerà la sua fuga infinita.

 

Ormai tutto è distrutto, ritroviamo Valuska in ospedale, completamente assente, catatonico, che continua a suonare un’armonia interiore, senza logica. Invano il musicista filosofo Eszter lo rassicura, dicendogli che lo aspetta in una nuova abitazione, che potrà suonare la propria musica con tutta tranquillità, che gli preparerà un nuovo cappotto per difenderlo dal freddo. Valuska non sente più, i suoi occhi sono sperduti nel silenzio della propria anima, che è irraggiungibile e sperduta nel suo deserto devastato, così come è devastata la piazza, con il container distrutto, con quella carcassa di balena completamente esposta, nella più immane solitudine. Eszter le si avvicina, la guarda nel suo occhio spento, come quello di Valuska, e l’ultima entrata musicale inizia da questo incontro, giunto troppo tardi, perché tutto è distrutto. Ma in quell’occhio il musicista nota qualcosa, che gli dà da pensare, perché quell’occhio muto riflette ancora la compassione per un’umanità che ha distrutto se stessa, la propria vita, la propria anima. Eszter se ne va, ma non prima di aver dato ancora un’occhiata alla carcassa dell’animale, dopodiché cala la nebbia alle sue spalle, facendo svanire la carcassa in un’eclissi che è come quella della scena iniziale, ma che ora non è più solo una ludica rappresentazione in una bettola, ma una vera e propria oscurità sul mondo, mentre finalmente si dipana, nei titoli di coda, la musica, quella musica che per quattro volte ha scandito l’opera, e che ora è libera di essere quello che è, checché ne dicano gli uomini nelle loro oscurità pulsionali e intellettuali.

 

Un’opera complessa, difficile, ma che va al di là della bellezza, perché è decisamente una grande opera, atta a rappresentare l’umano esistere nella sua follia collettiva, lacerato dall’istinto barbarico e dalla civilizzazione, due termini di una contraddizione che l’Europa orientale, come simbolo di tutta l’umanità, non ha mai saputo risolvere se non attraverso assalti improvvisi alla diligenze e ordini forzosi per arginarne le conseguenze, che fosse durante i secoli degli Zar, dei Soviet o del Mondo libero. In modo profetico viene ricapitolato il passato ma anche, proprio per questo, all’inizio del nostro millennio, viene attualizzato in modo corporeo quel che verrà e che ora scorre tremendamente sotto i nostri occhi: il caos di questa contraddizione, famelica, urgente, che toglie da sé ogni fondamento, perché in quest’opera Nietzsche è letteralmente impazzito, finito nel ventre di una balena, in cui si raccoglie tutta l’umanità rimossa, tradita e ferita dal nostro nano principe, pulsione distruttiva dell’Es, autoritario e vorace di potere nel disordine più totale delle barbarie, salvo poi preparare il terreno per un ordine altrettanto crudele, e in questo reciproco annientamento resta il senso dell’anima, come carcassa di una balena o di un uomo innocente completamente impazzito, quando oramai niente ha più importanza, e la musica, pertanto, può ricominciare a suonare senza più che l’uomo abbia pretese di riprodurla nella sua matematica arbitrarietà. Perché ciò che resta lo dicono i poeti, nel loro catatonico ascolto dell’essere, quando l’ora del nichilismo più sordido diventa il tempo di tutti.

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