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A Snake of June

Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film

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La recensione su A Snake of June

di giancarlo visitilli
6 stelle

Meriterebbe la visione in compagnia di uno psicoterapeuta il film di Tsukamoto, A snake of june, che ha vinto a Venezia 2002 il premio speciale della giuria. Un regista che o si ama o si odia, senza via di mezzo, che sperimenta, eccede, detrae e racconta delle paranoie erotiche. Tsukamoto nel film, oltre a ritagliarsi una parte per sè, firma la regia, il soggetto, la sceneggiatura, il montaggio, la scenografia, ma soprattutto la fotografia, insieme alla produzione.
Siamo a June, in una Tokyo piovosa e fredda, perchè giugno è il mese delle piogge in Giappone. Lei, Rinko, la bella e giovane frustrata, lavora in un call center per aspiranti suicidi; non perde nessuna occasione per abbandonarsi alle pratiche masturbatorie, purchè lontana da suo marito. Lui, Shigehiko, maniaco della pulizia, preferisce abbandonarsi ad altro genere di pratiche: sfregarsi su lavandini e vasche, per sublimare sua moglie, che non osa neanche sfiorare. Insomma, una convivenza che si gioca tutta sulla capacità d’ignorarsi, quasi che questo fosse il collante che unisce i due amanti. Rinko e Shingehiko potrebbero essere altrimenti felici, non fosse altro che per la loro ricchezza. Ma è proprio vero che i soldi non fanno la felicità? Nonostante questi, basta poco perché un equilibrio si interrompa.
Un giorno la donna riceve per posta alcune foto che la ritraggono mentre è tutta intenta ai suoi piaceri. Chi è il misterioso fotografo the Snake? Lo stesso Tsukamoto, che rivela di essere malato di cancro ed essere stato convinto da lei, attraverso il telefono, a non suicidarsi. Costui la costringerà a dare sfogo a tutte le sue fantasie più proibite, portandola a spasso per una Tokyo quasi estranea, deserta, arida e imbevuta di piogge, nuda, fino alla riconciliazione con il marito.
Non c’è nulla per cui commuoversi in questo film. Alla fine, ciò che rimane è la ‘gelidicità’ della bellissima fotografia, glaciale per il contrasto dei blu e dei bianchi, per la netta visione degli interni ed esterni; la perfezione delle inquadrature: tutto ricorda il cinema espressionista degli anni Trenta. Tanto quanto basta per rappresentare il mal di vivere e una paranoia esistenziale, che attanaglia la moderna coppia borghese. Temi sui quali Tsukamoto ritorna come ossessionato, dai tempi dei due violentissimi Tetsuo (grazie al quale nel 1989 raggiunse una rapida fama internazionale come un regista dall'originale visione), passando per Sôseiji-Gemelli e Bullet Ballet.
Ai colori freddi della fotografia di buona parte del film, si contrappone il rosso della passione e dell’eros, della resurrezione, nel finale, in cui i due amanti troveranno un modo per “rinascere a vita nuova”. La morte e la vita, la mortificazione fisica e la violenza psicologica, la luce e la pioggia. Un film di contrasti, ricorrenze, ripetizioni e inseguimenti. La macchina segue il marito, che a sua volta segue la moglie, fino a scorgerla esibirsi in una frenetica danza autoerotica sotto la pioggia incessante, ma finalmente libera di concedersi tutto ciò che da sempre avrebbe voluto fare, come le ricorda il suo malato-persecutore, affermando anche che “Le monache hanno il cancro al seno perché reprimono i lorto desideri”. In fondo siamo ciò che facciamo. Nonostante la morale del Kyrie eleison nelle sequenze finali del film.
Giancarlo Visitilli

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