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Gli amori di una bionda

Regia di Milos Forman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Gli amori di una bionda

di laulilla
8 stelle

Un piccolo tributo personale alla memoria del grande Milos Forman

 

Gli amori di una bionda (1965), di Milos Forman, è un antico e importante film che in questo ultimo anno, ha goduto di una certa visibilità, grazie restauro accurato della Cineteca di Bologna. Qualche sala d’essai lo ha riproposto nella sua versione originale, così come, a quanto ne so, è avvenuto in occasione di qualche festival dell’estate; probabilmente è diventato più facile trovarlo anche sulle piattaforme dello streaming televisivo*.


Milos Forman, nato in Cecoslovacchia nel 1932 e rimasto orfano molto presto (aveva perso nei campi di sterminio nazisti entrambi i genitori fra il 1943 e il 1944), era stato un cinefilo precocissimo che, dopo aver studiato alla facoltà di Cinematografia di Praga, si era segnalato a livello internazionale per il carattere innovativo dei suoi primi due lungometraggi: L’asso di picche(1963) e Gli amori di una bionda(1965). Questi due film,  infatti, furono subito salutati come significative realizzazioni riconducibili alla poetica della Nova Vlna, la Nuova Ondata dei cineasti praghesi che, come stava avvenenendo in Francia nell’ambito della Nouvelle Vague, rivendicavano la necessità di ricercare un nuovo linguaggio per il cinema, che fosse capace di narrare la casualità imprevedibile della vita attraverso l’uso più libero e disinvolto della macchina da presa, negli ambienti, poco esplorati, della quotidianità delle donne e dei giovani, in famiglia e anche nei luoghi di lavoro, da qualche tempo percorsi da scontento e inquietudini non ancora politici (il ’68 si stava appena profilando all’orizzonte), ma in evidente contrasto con l’ottimismo delle magnifiche sorti e progressive del realismo socialista.

 

 

 

Più che una storia, il film racconta gli stati d’animo di alcune ragazze che lavorano in un opificio in cui si fabbricano scarpe, in una località isolata e sperduta della Cecoslovacchia, che si chiama Zruc, circondata dai boschi, con due soli edifici oltre alla fabbrica delle calzature: la stazione ferroviaria e il dormitorio delle ragazze, dove, affastellate nei minuscoli spazi dei letti a castello, le giovani qualche volta litigano, ma più spesso si parlano e si abbandonano alle confidenze, ragionando d’amore, come le amiche di Silvia a Recanati: quella è l’età, quelli sono i sogni per il futuro, insopprimibili come la voglia di andarsene, di fuggire lontano da quel borgo selvaggio.

Lo sa bene il direttore della fabbrica, che teme di non raggiungere gli obiettivi del piano quinquennale imposti dall’amministrazione comunista, avendo già sperimentato qualche fuga e qualche abbandono. Era suo intento risolvere la situazione concordando con le autorità militari, alquanto riluttanti, l’arrivo di un po’ di soldati nella zona: una festa danzante ben organizzata avrebbe favorito, secondo i suoi piani, la nascita degli amori e delle amicizie. C’era qualcosa di patetico e di velleitario in questo tentativo, che infatti era stato quasi fallimentare per la diffusa delusione di molte ragazze, soprattutto di quelle del gruppo di Andula, la bionda del titolo (Jana Brejchová), alquanto restia a creare legami con quei soldati, sia per la differenza di età, sia per il loro aspetto fisico un po’ troppo massiccio, sia per la goffaggine del loro comportamento. Andula, poi, è attratta dal bravo pianista della serata (Vladimir Pucholt), uno smilzo ventenne, da subito adocchiato, nella cui stanza, infatti, avrebbe trascorso la sua notte d’amore, fra finte ripulse, abbracci appassionati e promesse che non sarebbero state mantenute, come vedremo nell’ultima parte del film, quando la scena, spostandosi a Praga, ci introduce nella casa dove il bel musicista, impenitente dongiovanni, vive con i genitori (Milada Jezkova e Josef Sebanek), disillusi e logorati dalla ripetitività insensata della loro vita quotidiana.

Alla bionda Andula che lì lo aveva cercato e che, dietro la porta, tutto vede e sente le parole meschine, vili e preoccupate di quel terzetto familiare, versando amarissime lacrime, il regista affida il compito di mostrarci lo squallore di quella realtà, in una serie di bellissime e indimenticabili soggettive. I toni del disincanto e dell’ironia, che connotano una gran parte del film, si fanno più tristi e pietosi: nessun melodramma, ma la rappresentazione dolorosa della universale difficoltà di diventare adulti. 

________

 

 * Mi risulta che la RAI lo stia riproponendo nella vecchia versione italiana, che include arbitrariamente, con effetto kitsch, la canzone di Caterina Caselli.

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