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La zona d'interesse

Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film

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La recensione su La zona d'interesse

di barabbovich
5 stelle

Chiudete gli occhi. Voci confuse, urla, nero. Poi rosso, bianco, ancora rosso e infine di nuovo nero. Squarci di colore sullo schermo. Improvvisi, abbacinanti o tetri. La zona d'interesse è un film da ascoltare. I dialoghi asettici, quotidiani, i burocrati del Terzo Reich che pianificano le camere a gas di Auschwitz come se si trattasse di una gita scolastica, la moglie (Hüller) di Rudolf Höss (Friedel), che di quell'abominio è il coordinatore e principale artefice, che si preoccupa assai più della rigogliosa flora del giardino di casa che non della fauna umana che si trova oltre il muro del campo di concentramento, in attesa di una morte impietosa. Il film è il raggelante ritratto di una vita ordinaria, condotta da Höss con la moglie e i cinque figli al confine con il lager. Tutto rimane costantemente fuori scena, con la sola eccezione del brevissimo inserto che mostra il campo di sterminio così com'è oggi, a sterminio compiuto, con uno sguardo - tipico del regista di Sexy Beast e Under the Skin - geometrico, algido, ordinatissimo, e un ritmo lentissimo, a mostrare quasi con un gusto pornografico le aberrazioni della banalità del male. Ma cosa aggiunge l'osannato film di Jonathan Glazer (Oscar come miglior film internazionale e, non a caso, per il miglior sonoro) a opere come Stalag 17, Kapò, Il pianista, Il bambino con il pigiama a righe? Nulla. Propone soltanto la versione estetizzante di un orrore per il quale vale, una volta di più, il principio (qui parafrasato) enunciato da Theodor Adorno: "dopo Auschwitz, qualsiasi forma d'arte è una forma di barbarie". Tanto più questa.

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