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L'albero degli impiccati

Regia di Delmer Daves vedi scheda film

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La recensione su L'albero degli impiccati

di scapigliato
8 stelle

Un film che suggella nel 1959 il passaggio da un'età classica, dell'aura epica della fondazione di un Paese e di un Uomo, quello americano, ad un'età inquieta, quasi già crepuscolare e tinta di modernità come il successivo traguardo peckinpahniano. In "L'Albero degli Impiccati", il professionista Delmer Daves abbozza i movimenti interiori che nei western dei '70 saranno prerogativa di tutti i western-off: protagonista sì mitico, ma misterioso; sì leggendario, ma discutibile, dal passato oscuro. Un personaggio che porta sia nel gesto che nella definizione del ruolo i caratteri della complessità, della torbidezza, dell'inquietudine moderna. Un film che segue la lezione manniana e fa dei paesaggi la cornice corrispondente dei suoi personaggi: paesaggi verticali, scoscesi, arditi; strapiombi, miniere, avvallamenti angusti, paesini incastrati in un fazzoletto di terra. Infine il ritratto di una società sì complessa e a più strati, ma irrimediabilmente compromessa con la materialità e il capitalismo: le sequenze finali del trasporto folle e omicida per l'euforia dell'oro ne è una pagina simbolica, che riprende il passaggio biblico di Mosè che sceso dal Monte trovò il suo popolo ad adorare dei pagani. Tutto porta così a pensare che al regista interessasse maggiormente il contenuto ed una figurazione simbolica di un percorso esistenziale, di una o più ragioni di vita, piuttosto che la narrazione di genere. Tant'è che in questo suo capolavoro Delmer Daves approfondisce di più gli schemi melodrammatici di quelli western. Poche le sparatoie, pochi gli inseguimenti, pochi i duelli, uno solo alla fine, e di una bellezza fantastica! ...la progressione di Cooper verso Malden è mitica. Mentre invece abbondano le tensioni sessuali, politiche e classiste; la tragicità della vita, la fatalità dell'amore impossibile, lo spettro e l'infausto presagio di morte. Certo, l'iconografia secca e rude con cui è stata incorniciata la vicenda aiuta a comprendere come quell'albero degli impiccati, che sovrasta il paesino di pionieri e che dà titolo al film, non sia solo un puro elemento iconografico atto a dare atmosfera al film, ma anche e soprattutto un referente, oggi diremmo un "link" che ci ricollega ad altri scenari (gotici, noir, horror), che restituiscono a noi e al film un'aria di pesante tragedia gettata ai confini del West.
Importante poi il parco attori, soprattutto per Gary Cooper, il cui fascino "muto" sembra migliorare con il passare del tempo, e le sue interpretazioni diventano un'antologia archetipale il cui valore supera quello cinematografico tout court per sfiorare quello spirituale, o almeno quello interiorizzato. Non c'è una posa in cui Gary Cooper non sia veicolo di leggendarietà del gesto, del significante, della sua figurazione alta, snella, di nerovestita e tragica per antonomasia. Segue a ruota il grande Karl Malden, brutale e animalesco che fa della bestialità il suo codice di comunicazione. La tensione sessuale che coinvolge Gary Cooper, Karl Malden, il giovane Rune e la bella svizzera interpretata da Maria Schell affonda le radici nella varietà faunistica degli istinti primitivi: il vecchio e laido; il giovane belloccio ma forse, e a turno, o impotente, o omosessuale, o castrato, e così via; l'uomo eroico e stoico; e lei, l'alcova vivente di fremiti, eccitazioni e pruriti che fanno perdere le staffe. A loro poi vanno aggiunti i caratteristi, come la vecchia arpia e strega e vipera, moglie del droghiere, bandiera della salute pubblica e della brava gente della comunità, ma invece donna frustrata, incagnita con il mondo e con se stessa; e il predicatore di George C. Scott che s'appella alla Bibbia pur di plagiare i poveri pionieri, e fa del linciaggio e della forza violenta, il segno distintivo della società civile. Paradossale, ma era ed è ancora così in molti paesi democratici. E tutto questo scenario inquietante è sovrastato fatalmente dall'albero degli impiccati.

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