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Beyond the Wall

Regia di Vahid Jalilvand vedi scheda film

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La recensione su Beyond the Wall

di EightAndHalf
4 stelle

Nella fotografia stereotipicamente funerea e grigia del classico prodotto iraniano contemporaneo da festival; nella stretta asfissiante di un cinema impegnato, serioso, attivista, sociale; nelle solite situazioni circolari, kafkiane e senza scampo di queste storie di ingiustizia in unità di tempo, luogo e azione; in tutti questi posti, Vahid Jalilvand ambienta la storia di un cieco che decide di difendere una fuggiasca in casa sua, mentre la polizia assedia il condominio e i detective indagano insistenti con più di un sospetto nei confronti del protagonista. Sembrerebbero le gustose premesse per un thriller teso e inquietante, che parte come Don’t Breathe di Fede Alvarez e continua come il più classico dei film di assedio. Ma Jalilvand ha un’attrazione irresistibile per il patetismo: flashback con scene di folla, urla, incidenti, crisi epilettiche, corse, cercano di enfatizzare fino allo spasmo una storia semplice, tirata via fino alla ridondanza più bieca, nel tentativo di penetrare nell’angoscia della protagonista. 

Jalilvand al montaggio alterna passato e presente con precise corrispondenze di audio, evocando con eventi piccoli intere tragedie successe altrove e in un altro momento, per far implodere il mondo in una stanza. Ma dà per scontato tanto altro: la casa è inquadrata sciattamente, tanto che non capiamo se non dopo tanto tempo dove sta cosa nonostante la suspense si basi interamente su questo, sulle zone d’ombra, sui possibili nascondigli; i personaggi chiedono disperatamente empatia sciorinando drammi e schiamazzi (in una casa con le pareti lerce e sottili loro non sussurrano e nessuno li sente nei loro lunghi colloqui ad alta voce); il finale vuole capovolgere alcuni meccanismi narrativi senza alcuna vera ragione se non tentare la chiave del film “sensoriale”, che al più assomiglia al plot twist di un thrillerino horror all’americana, e ci si arriva comunque totalmente svogliati. Alla fine la metafora sulla giustizia sommaria e sul problema delle incarcerazioni illecite, che oggi è molto attuale e al concorso di Venezia 79 piacerà probabilmente a chi di dovere (mentre Jafar Panahi è in carcere, ma anche in concorso con No Bears sempre a Venezia) arriva come il risultato di un film di genere scritto di fretta e girato senza parsimonia, fatto per convincere lo spettatore con meno pretese che quel cinema tanto lontano sa parlare il linguaggio degli occidentali e divertirli a sufficienza, mentre dietro un autore decide di dar più spazio a delle idee teoriche che non a una scelta netta, importante (politica!) che sia una dal pdv della messa in scena. Più che evitabile.

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