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Il primo giorno della mia vita

Regia di Paolo Genovese vedi scheda film

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La recensione su Il primo giorno della mia vita

di barabbovich
1 stelle

Potrebbe cominciare come una barzelletta: ci sono una poliziotta (Buy), un motivatore demotivato (Mastandrea), un bambino YouTuber in sovrappeso (Cistini) e una ex ginnasta finita sulla sedia a rotelle (Serraiocco)… Se Paolo Genovese non si prendesse tanto sul serio ci sarebbe da ridere all'emanazione di questo peto cerebrale che rappresenta il nadir della sua carriera, oltre a essere il suo film paradossalmente più ambizioso (dixit). Si tratta, a ben vedere, di una riproposizione ancora più sbiadita e inconcludente di The Place: anche qui un personaggio misterioso (diremmo un angelo, se l'accostamento con La vita è meravigliosa di Frank Capra non suonasse blasfemo) dà ai quattro personaggi richiamati all'inizio l'opportunità di un ripensamento sul loro suicidio. Tempo: una settimana, durante la quale potranno guardarsi dall'esterno e decidere se davvero ne valesse la pena. Peccato che nel film non ci sia il minimo spiraglio per una riflessione che non vada oltre il bigino di filosofia esistenzialista imparato alle scuole serali, un concentrato di grossolanità portato avanti a suon di stereotipi che non restituisce alcuna delle ragioni dei quattro se non a colpi d'accetta e che, soprattutto, non lascia intravedere quelle per proseguire la propria esistenza terrena, fatta eccezione per quelle di chi è restato. Se sul piano dei contenuti il film di Genovese fa acqua da tutte le parti, mostrando una tracotanza degna di miglior causa per uno che ha firmato opere come Tutta colpa di Freud, Immaturi e La banda dei Babbi Natale, su quello della forma Il primo giorno della mia vita non è da meno: droni che planano su Roma (con l'immancabile gazometro) a ogni di scena, Servillo che interpreta Servillo, la Buy che interpreta la Buy e Sara Serraiocco che - al di là della bocca perennemente spalancata con stupore da rigor mortis - sembra una tossica che ha ricevuto un paio di ceffoni da Mike Tyson e parla come una calabrese dell'Aspromonte che cerca di esprimersi in grammelot (ma perché non hanno messo i sottotitoli?). A completare il quadro ci sono Mastandrea in versione tassidermica che sembra capitato per caso sul set, il meglio della hit parade personale del regista a riempire i vuoti di un copione che annaspa, dialoghi sincopati che paiono scritti in vista di un corso di recitazione parrocchiale per bambini dislessici (battuta / pausa / battuta di ritorno). L'unica cosa da salvare è l'interpretazione che The Niro (al secolo Davide Combusti, l'epigono di Jeff Buckley) dà dell'Hallelujah di Leonard Cohen nella metropolitana capitolina. Il resto è un film non solo brutto, irritante, superficiale, ma soprattutto inutile.

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