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Mank

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Mank

di lino99
8 stelle

Un ritratto universale dell'outsider, che utilizza il flashback come parallelismo, tra due piani temporali della realtà decisivi per la creazione cinematografica

locandina

Mank (2020): locandina

Non è un film su "Quarto Potere" di Orson Welles, né un biopic su J. Mankiewicz, lo sceneggiatore. "Mank" è un saggio nostalgico ma attuale sull'essere outsider e sulla vita sublimata in arte, una vita che presenta problematicità e insoddisfazione. La politica è l'aspetto da cui emerge non solo l'estraneità del protagonista dalla sua aggregazione, ma in generale la coscienza del cattivo utilizzo che il medium preferito, il cinema, sia utilizzato per scopi pratici, e non sia finalizzato a messaggi universali, o non si dimostri semplicemente come diletto fine a sé stesso. Il protagonista getta la maschera in ogni situazione formale o diplomatica, non è in grado di nascondere la riprovazione, le critiche e la spiegazione delle contraddizioni e assurdità del sistema in cui lavora.

Ma c'è una scena in cui l'etichetta del polemico viene temporaneamente sospesa: nella festa per i risultati delle elezioni accende un meccanismo di difesa e, al posto di una risposta a domande futili e affermazioni fastidiose, utilizza espressioni facciali di falso consenso per uscire dal disagio. E' una scelta seguita da un montaggio fatto di primi piani e sovraimpressioni, che traducono in immagini un momento di confusione e di pensieri accavallati. La nausea proviene dalla non corrispondenza tra arte e realtà, dato che la prima ha un potere conferito dalla seconda, nello specifico dai capi, dai proprietari, da chi ha in mano l'industria. E allora perché chi traduce in parole gli eventi poi messi in scena e distribuiti non ha lo stesso potere e controllo, neanche della propria vita? Un paradosso, una magia negativa, contrapposta alla magia positiva del cinema.

La narrazione utilizza il flashback come parallelismo, confronto tra passato e presente, che hanno in comune la lotta, sempre contro le variabili e le influenze dal mondo esterno. Nel tempo presente il luogo è un interno (che non gode di nessuna schermata con i dettagli della scena), in cui il lavoro è impedito prima dalla mancanza dello sfogo materiale (l'alcol), dopo dai comprimari della realtà, che devono negoziare la loro partecipazione non esplicita ad una finzione.

Nel tempo passato invece, frammentato e selezionato, ogni episodio costituisce un aspetto che ricostruisce un quadro generale, inerente alla genesi dello script. Lo spettatore ha il compito di collegare gli elementi dei due mondi, in una sfida (tipica del cinema di Fincher) che accelera l'alternanza tra i due piani temporali nel finale. Gary Oldman deforma il suo viso e ci guida barcollante nella denuncia sofferta del lato oscuro del cinema, che dietro le quinte spesso non produce i sogni, ma li ordina. Il tutto in una confezione celebrativa del passato, ma con un contenuto universale e sempreverde.

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