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Il collezionista di carte

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su Il collezionista di carte

di SamP21
8 stelle

Sulle tracce di Bresson ancora una volta, ma soprattutto di se stesso, Paul Schrader racconta i turbamenti personali di un ex soldato semplice in stanza ad Abu Ghraib. Naturalmente la realtà è più complessa: le inquietudini soggettive si uniscono ad istanze politiche, in particolare sul modo di concepire la democrazia negli Stati Uniti d’America.

 

La trama in breve:

William Tell è un giocatore d’azzardo ed ex militare. Tutto ciò che vuole è giocare a carte. Un giorno la sua spartana esistenza viene sconvolta dalla conoscenza di Cirk, un giovane vulnerabile in cerca di aiuto per il suo piano di vendetta contro un colonnello. Nel suo rapporto con Cirk, Tell vede una possibilità di redenzione e, con il supporto della misteriosa agente La Linda, si propone di vincere la World Series of Poker di Las Vegas, passando da un casinò all’altro. Tuttavia, mantenere Cirk sulla retta via risulta impossibile e Tell viene trascinato nell’oscurità del suo passato.

 

Presentato pochi giorni fa al Festival di Venezia, e in sala da due giorni, l’ultima fatica di uno degli sceneggiatori per eccellenza della New Hollywood è un film che cerca di essere più visibile, più adatto ad un pubblico vasto rispetto a “First reformed”. Certo, parliamo sempre di Schrader e dei suoi interrogativi morali, politici e quindi il film è duro, lento e meditativo.

 

Tante componenti tutte in un film: Il racconto in forma di diario, il resoconto di una vita, il tentativo, spesso fallito, di redimersi, e poi gli aspetti politici. Nel precedente film era centrale la questione ambientale, ma c’era anche lì’ un attacco all’imperialismo americano (quando il protagonista racconta come è morto il figlio, dopo che lui l’ha spinto ad arruolarsi, da patriota, per fare una guerra immorale); qui appunto l’esportazione della democrazia americana in Iraq in Afghanistan, usando anche la tortura come arma necessaria allo scopo di estorcere informazioni utili.

 

Il protagonista è un uomo solo, condannato ad una routine maniacale, che trova la possibile redenzione nell’aiutare un ragazzo, che però è in cerca di vendetta. Passiamo dai padri di “Hardcore” e “First reformed”, così diversi tra loro (in cerca di una figlia il primo, distrutto dalla morte del figlio l’altro), ad un figlio (Cirk), orfano, che cerca la vendetta per il padre.

 

In questo viaggio in un’America notturna, come spesso in Schrader, il regista ci mostra la sua instancabile fede nella parola scritta, nel diario personale e contemplativo, alla ricerca di una redenzione impossibile. I personaggi sono ben scritti, l’azione è lenta ma inesorabile, la regia passa da piani fissi ad un uso del grand’angolo eccezionale nelle scene più dure e sofferte, nel carcere di Abu Ghraib. In parte quindi risulta lontana dallo stile del precedente film.

 

Il secondo decennio del Duemila è stato molto sofferto per il nostro regista, dopo un film come “The Canyons” che ha creato un dibattito divisivo nella critica. Chi vi scrive lo apprezza, e dopo il disastro produttivo ( con tanto di disconoscimento) de “Il nemico invisibile” è arrivato il noir “Cane mangia cane”, un film con alcuni momenti riusciti ma una trama esile; questa significativa rinascita autoriale è giunta con due film importanti, in particolare “First reformed” che può già segnare in parte questo biennio di cinema americano.

 

La vendetta entra in questo film, come in tante opere del regista, spesso come momento catartico, come motore finale, ineluttabile, ed il protagonista non può esimersi. Era un uomo solo senza speranza, ancorato alla sua routine, quando in nome di un riscatto, credibile e possibile, il suo animo si risolleva, con l’aiuto di un ragazzo ed anche di una donna; di fronte ad uno smarrimento totale, ancora una volta non può che avvenire una reazione.

 

Ma la ricerca personale di redenzione, lo scontro con un passato lacerante non sono le uniche tematiche del film. Come si diceva, il film diventa politico quando ci mette di fronte all’evidenza dei fatti. Il protagonista è un carnefice ma anche una vittima di un sistema che crea carnefici per farne, spesso, anche capri espiatori; il sistema di esportare la democrazia americana mostra la sua insostenibilità, proprio come in questi giorni, per l’ennesima volta, l’ha rivelata.

 

Il protagonista è un uomo dominato dalla violenza; proprio per questo il finale, non mostrato dal regista e quindi più inquietante, è inesorabile. Diversamente dal prete di “First reformed”, è stato un torturatore e non può sfuggire in questo modo alla sua essenza.

 

La colonna sonora, che riesce a seguire passo-passo il racconto del film, è del duo Robert Levon Been – Giancarlo Vulcano. “The card Counter” si giova dell’interpretazione di un superlativo Oscar Isaac, ormai uno degli attori più bravi della sua generazione. Il film si concentra sull’incontro tra l’ex soldato, ex carcerato e il ragazzo; a latere compare la tematica del giocatore, che Schrader rende molto interessante. In questo contesto infatti, il regista riesce a infondere del realismo, mostrandoci un mondo di “sociopatici” pieni di debiti o quasi.

 

Lo stupore nel vedere gli ultimi due film di Schrader è evidente, essendo un’autore/regista capace di essere credibile e veritiero ad ogni nuova ondata e segnando a modo suo ogni decennio dagli anni ’70 in poi. Pur passando da pellicole straordinarie ad opere piccole, a volte poco riuscite, è rimasto fedele alla sua idea di cinema, ma nel contempo è evoluto al livello registico, sapendo interpretare i cambiamenti del sistema e introducendoli nelle sue storie di redenzione, di passaggi notturni, di violenza, di città distrutte.

 

Nei film del regista, e soprattutto in questi ultimi, i protagonisti sono sempre segnati dal dolore, da un dolore che gli accomuna e in parte gli avvicina.

 

Il protagonista è ovviamente un “figlio letterario” dei tanti personaggi usciti dalla penna del regista. Assistiamo ancora una volta ad una ricerca di sé stessi, e la redenzione non arriva mai o quasi: nel finale di “First reformed” c’è stata semmai una nuova via da percorrere, una rinuncia alla violenza, seppur giustificata, in nome di un po’ di speranza.

 

Un film da vedere al cinema, pieno di dubbi morali e attacchi politici, diretto benissimo e con mano ferma da un regista ormai ritrovato, e interpretato da un bravissimo trio di attori.

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