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Equus

Regia di Sidney Lumet vedi scheda film

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La recensione su Equus

di scapigliato
8 stelle

Dove vuole arrivare Equus? E soprattutto, dovunque voglia arrivare, da dove vuole passare per arrivarci? Da un testo teatrale di Peter Shaffer, il film di Lumet ha più facce, più risvolti, più direzioni.
Sarebbe fin troppo facile analizzare il film fermandosi alla lettura psichiatrica, al pamphlet anticlericale, alla sondazione irrazionale, oppure leggerlo solo da un punto di vista estetico, quindi approvare o obiettare alle scelte registiche di impianto teatrale. Da un lato abbiamo i simbolismi, le derive oniriche, le sovrapposizioni temporali che insieme alla scena teatralizzata vincolano il film ad una sua lettura quasi anti-narrativa, dove ciò che conta di più è l'effetto della scena, della visione e delle sue immagini. Una perlustrazione non tanto della follia, ma dei suoi segni, quindi di elementi che potrebbero anche affrancarsi dall'idea consolidata di follia e rientrare di diritto nella sfera dell'eccezionalità, delle anime superiori. Il protagonista, un coraggioso Peter Firth, non si può certo dire che non abbia patologie precise o che sia sano e soltanto incompreso, però negli incavi della sua anormalità vive sprazzi di disarmante lucidità – come la nuda cavalcata notturna – che non lo fanno più apparire come un "pazzo" clinicamente accertato, bensì gli conferiscono un'eroismo antagonista che affascina e turba il suo medico curante. Questa bellissima figura titanica interpretata da Richard Burton con notevole distacco fisico, quasi come se il film e il proprio personaggio lo inquietassero a tal punto da irrigidirlo nella forma attorica – nonostante già l'avesse portato a teatro, così come Peter Firth, storico Alan Strang fin dalla prima versione teatrale – si sublima nella confessione della propria debolezza, nell'affaticamento del rigore intellettuale e nella degenerazione delle impalcature morali e borghesi. La libertà del ragazzo che amava i cavalli, diventa lo specchio deforme in cui il medico, o per estensione la scienza, la borghesia, l'imperante, si rivedono corrotti, abbruttiti, vecchi e sconfitti.
Da un altro lato, invece, colpisce l'irruenza con cui ci si scontra con il regime cattolico. Troviamo una famiglia in cui c'è una madre invasata religiosa e un padre anticlericale ma piccolo-borghese a tal punto da essere castratore quanto i dogmi confessionali della moglie. Entrambi vengono descritti da Lumet come vittime di un dio troppo potente, a cui si è dato troppo potere, e che ora fatichiamo a rimuovere dall'orizzonte delle nostre scelte, attribuendogli un ruolo infinitamente maggiore di quello che per diritto l'uomo dovrebbe tenere per sè sostituendosi a dio e riportandosi al centro del discorso. Questo potere del dio cattolico, come di qualsiasi altra religione, influisce negativamente sulla già instabile psiche dell'adolescente Alan – instabilità causata dai genitori iperprotettivi e grottescamente disciplinari – e gli procurano così lesioni emotive che lo portano a vivere schizofrenicamente le proprie relazioni umane, dai semplici contatti quotidiani all'a(na)ffettività sessuale con le ragazze. Il male che spinge all'accecamento dei cavalli non è senza causa, non è un gesto di follia improvvisa o lo sfogo libidinoso di una perversione, ma soltanto il risultato finale di una continua imposizione moralistica violenta nei confronti di un bambino. Se già la famiglia e l'istituzione scolastica, irrigidite nelle loro assurde posizioni di priorità educativa e di assoluta verità, fanno i loro danni, figuriamoci quando queste, o una delle due, si fanno carico dell'indottrinamento religioso. E Lumet, che sembra rapito e scomparso all'ombra della teatralità del film, si prodiga ad accusare la religione non solo di aver rovinato la libertà adolescenziale, oggi purtroppo irrimediabilmente compromessa con il senso di colpa, ma di averne corrotto anche i genitori, i padri e le madri, vittime loro stessi della stessa follia religiosa.
Così, anche l'irrazionalità di tante scene e di tanto linguaggio filmico aiuta a descrivere una situazione psicologica complessa dove non c'è un unico colpevole per l'imbonizione religiosa, così come non ci sono vere vittime, ma dove i segni del disturbo psichico si amalgamano con i segni del perurbarte per dare vita ad una iper-realtà frustrata e allo stesso tempo liberata in cui si è perso il contatto con il mondo reale. Perdita comunque circoscritta al solo consorzio umano. Tant'è che quando Peter Firth è in compagnia dei cavalli, nonostante la morbosità del rapporto, vive serenamente e senza scosse sclerotiche la propria relazionalità.
Il cavallo, come referente animale di questa narrazione, simbolo di fertilità, di virilità maschile, di libertà selvaggia, di potenza naturale, di forza primitiva, è vissuto dal giovane protagonista come il mezzo per emanciparsi dalla propria frustrazione. Non però una frustrazione di tipo omosessuale come potrebbe suggerire una superficiale lettura dei segni narrativi – il cavallo stesso, la nudità, il rapporto tra medico e paziente, l'anaffettività dei genitori e soprattutto la castrazione del padre – quanto una frustrazione più generale che coinvolge la sfera sessuale totalmente senza darle un segno etero o contrario. L'impotenza del giovane Alan durante il rapporto con la ragazza di cui sembrava essere innamorato, non è segnale di omosessualità, bensì di castrazione superiore. Nel cavallo Alan rivede così tutto ciò che gli manca: l'erezione.  La libido quindi ripassa attraverso il corpo del cavallo che diventa oggetto di desiderio anche erotico, ma soprattutto ersazt fallico, prolungamento virile confermato anche da certe scelte registiche che indugiano sul collo dell'equino proiettato fuori dal corpo del ragazzo all'altezza del pube. L'incoscio e l'onirico diventano così, insieme alla carnalità dei corpi nudi di animale e uomo, forme della stessa urgenza intellettuale, quella di slegare, sbrigliare l'animale-uomo, l'animale-bambino, dalla severità e dalla rigidità delle convenzioni borghesi e dalle restrizioni religiose, permettendogli un sano rapporto con il proprio corpo, la propria sessualità, la propria istintualità.
Proprio di questo Equus si fa carico, oltre che regalarci delle intense prove d'attori e delle affascinanti scene liberatorie, come le fauniche cavalcate notturne, e cioè si fa portavoce di una rivoluzione egosessuale. Dapprima il nostro corpo, il nostro rapporto con esso, la nostra consapevolezza di esso, liberati dai dogmi, dalle religioni e da ogni sovrastruttura impositiva che non sia la natura; solo in seguito allora può sussistere il rapporto con il corpo altrui, senza declinazioni omosessuali o eterosessuali: solo il rapporto fisico tra due corpi. E come referente animale, il cavallo allaccia a questa riflessione tutto il suo potenziale erotico, come segno inconscio della nostra sana animalità.

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