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Favolacce

Regia di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo vedi scheda film

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La recensione su Favolacce

di DucaMinimo
8 stelle

I D'Innocenzo dipingono una periferia romana (Spinaceto) di una cupezza e di un pessimismo devastante. Si soffermano in particolare su tre famiglie, ciascuna con figli a carico, ciascuna appartenente al sottoproletariato. Le baracche di pasoliniana memoria sono sostituite da villette a schiera che semplicemente mistificano quelle realtà che da Accattone giungono fino ai giorni nostri, mutate forse nella forma ma non nella sostanza. Il racconto è strutturato su due punti di vista: quello dei genitori e quello dei figli; i primi sono arrabbiati, sconfitti, umiliati, incattiviti, e i secondi sono totalmente loro succubi. I sentimenti orrendi che animano i padri sono destinati a ripercuotersi sui figli, e così via... I figli diventeranno a loro volta padri e si ripeterà tutto da capo. Non c'è spazio per nessun buon sentimento, i bambini cercano qualche spiraglio di luce specie dalle interazioni tra loro, ma sono inghiottiti da un abisso profondo e ineluttabile. Nessuno sorride, nessuno si diverte, nessuno riuscirà ad amarsi. A regnare sovrana nei più piccoli è una sorta di apatia che col tempo si temprerà fino a diventare odio, lo stesso di cui sono iniettati gli occhi degli adulti. La macchina da presa agisce in due modi opposti, che tuttavia sono i più adatti per raccontare una "favolaccia": o è molto distante dall'azione o è vicinissima, a scrutare ogni dettaglio di corpi imperfetti che sono in qualche modo lo specchio di un animo marcito. Eccellenti tutti gli attori, dai più grandi ai più piccoli. Tutti.


Sul finale: i modi per sfuggire a questo uroboro sono due: non nascondersi dietro delle maschere (la villetta a schiera è l'emblema), rinnegare la finzione e instaurare rapporti basati sulla sincerità (per quanto cruda e spietata possa essere). L'altra opzione è la morte, tanto distruttiva quanto liberatoria. La prospettiva è cupa e cinica, ma serve per spingere ognuno di noi ad analizzare se stesso e porsi degli interrogativi. Torna di nuovo in mente Accattone quando, morente, con un filo di voce sussurra: "Mo sto bene..."

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