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Il colore del melograno

Regia di Sergej Paradzanov vedi scheda film

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La recensione su Il colore del melograno

di omero sala
9 stelle

locandina

Il colore del melograno (1968): locandina

 

Il film racconta, a modo suo, la vita del trovatore (di corte) armeno del Settecento Sayat-Nova, dall’infanzia alla morte (avvenuta in un convento dove si rifugia dopo essersi innamorato della regina della Georgia), attraverso sequenze scandite da siparietti didascalici (con citazioni del poeta) simili a quelli usati nel cinema muto, 

Ma non si tratta di una biografia “normale”. 

E, per la verità, nemmeno il film appare normale: il regista tenta di utilizzare le immagini nello stesso modo con cui il poeta-trovatore usava le parole, con inquadrature quasi statiche (macchina fissa), quadri ieratici suggestivi (tableaux vivants), evocazioni emotive, sensazioni date da colori accesi (e quasi si sentono gli odori), figure senza prospettiva (bizantine) in pose statiche e frontali o in lenti movimenti stilizzati e rituali, musiche sacre eseguite da strumenti arcaici, canti liturgici e litanie, danze, ambientazioni oniriche che sembrano allucinazioni surreali, dispiego continuo di metafore e allegorie misteriose: nella scena iniziale, per esempio si vedono tre melegrane “ferite” (il melograno è il simbolo dell’Armenia) che grondano succo come fosse sangue che si spande su un telo formando una macchia che ha la forma dell’antica Armenia; e subito dopo c’è la scena dei tintori che inzuppano tessuti che richiamano i colori della bandiera armena.

Le immagini, molto “iconiche” (nel senso di “icona”) si ispirano (in costumi, acconciature e visi) a immagini sacre (a icone popolari, appunto), ad affreschi di chiese medioevali caucasiche, a figure che si trovano su vecchi manoscritti miniati armeni o persiani; ed anche le riprese sono tutte girate in antichi monasteri armeni o georgiani o azeri, in un mix di riferimenti esclusivamente biblici o evangelici (pur sullo sfondo di ambientazioni già vagamente islamiche). 

Del resto il regista ha l’accortezza di avvertire lo spettatore con una premessa posta nei titoli di testa: “Questo film non narra la vita di un poeta particolare. Gli autori del film si sforzano di riprodurre il mondo del poeta, i moti della sua anima, le passioni e le sofferenze,  attingendo ampiamente alla poesia armena medioevale, ai suoi colori, ai suoi simboli e alle sue metafore”

  

La visione del film, considerato da tutti il capolavoro di Sergei Parajanov (e da molti il capolavoro della cinematografia mondiale) è difficoltosa, quasi snervante: non è sicuramente fatta per cervelli abituati alla incalzante cinematografia tradizionale che preferisce film narrativi (“di prosa”, direbbe Pasolini, con eventi, personaggi e dialoghi) o didattici (che educano il popolo); ma si contrappone a tutti con una “missione estetica” costruendo film di pura poesia fatti di immagini, colori, forme e suoni.

Forse si può trovare qualcosa di vagamente simile in alcune sequenze - appunto - pasoliniane (Medea? Il fiore delle mille e una notte?); o, per rimanere nei paraggi della Russia, in Eisenstein (Ivan il terribile, del 1949); ; o nell’Andrej Rublev di Tarkovskij;  o nell’ineffabile L’imperatrice Caterina, del 1934, di Josef Von Sternberg (il regista del famosissimo de L’angelo azzurro, con Marlene Dietrich); o perfino nel teatro No giapponese.

 

Nessun regista comunque ha mai intriso con tanta assolutezza un’opera cinematografica di poesia, di architettura, di pittura, di iconologie, di musiche e arti; nessuno ha mai percorso a ritroso la strada del cinema quasi negandolo e riportandolo alla bidimensionalità e alla staticità (che, anche in senso etimologico, è il contrario del termine κ?νημα, movimento, da cui deriva la parola “cinema”); nessuno ha mai scardinato con altrettanto ardore la trama narrativa per farne un flusso ininterrotto (stream of consciousness) di immagini trasbordanti, geometrie architettoniche, incanti, metafore intrise di senso “immaginifico”. (Gli unici indizi che orientano lo spettatore nel dipanare la trama sono dati dai sottotitoli che aprono e scandiscono il film, peraltro non presenti in tutte le versioni circolanti (infanzia del poeta, adolescenza, il poeta a corte, nel monastero, vecchiaia, morte).

 

Magico appare il ricorso a fluidità allegoriche (succhi, tinture, sangue sacrificale, acqua che lava tappeti e bassorilievi o intride libri pressati e messi ad asciugare sui tetti, aperti al sole e sfogliati dal vento), in una contaminazione visionaria e onirica delirante, simbiosi evocativa, sinestesia mistica di tutte le manifestazioni artistiche, quasi ossessiva, isterica, spesso (intenzionalmente?) ermetica. 

 

Vedere Il colore del melograno è come aprire una porta e camminare in un’altra dimensione, dove il tempo si è fermato e la bellezza è stata liberata. (Martin Scorsese).

 

Il regista, georgiano di origini armene (ma vissuto in Ucraina, a Kiev), venne pesantemente censurato (non solo per questo film “deviante”), gli fu vietato di fare altri film e fu persino rinchiuso in un gulag. 

Che io viva o muoia, il mio canto desterà la folla. (Sayat Nova).

 

 

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