Regia di Shahad Ameen vedi scheda film
Una semplice, ma affascinante fiaba araba, che rimane impressa per una riuscitissima ambientazione dal respiro mitico, fuori dal tempo e dalla realtà, resa attraverso la raffinatezza estetica dell’immagine in bianco e nero, ove un paesaggio costiero ieratico, irreale e fuori dal tempo, si compendia con una corporeità ruvida.
In un villaggio costiero di pescatori nella penisola araba (forse l’Oman?), in un tempo mitico ed indefinito, vige l’usanza di sacrificare le figlie primogenite per ingraziarsi la Signora del Mare e favorire un’abbondanza di pescato che garantisca la sopravvivenza della comunità. Ma un giovane padre ha un ripensamento all’ultimo secondo e ripesca la sua neonata, che già una sirena aveva afferrato per il piedino: per questo quando Hayat cresce le rimarrà uno strato di squame sul piede. Tuttavia il destino di vittima sacrificale non è stato sventato del tutto e anche sulla dodicenne, considerata superstiziosamente portatrice di disgrazie, ancora incombe il terribile fato, le cui vittime si tramutano in sirene che, se catturate, vengono uccise mangiate dalla popolazione. La ragazzina però saprà trovare la forza di mettere in discussione le tradizioni patriarcali.
La regista saudita Shahad Ameen racconta una semplice, ma affascinante fiaba dalla sensibilità femminile sul difficile ruolo della donna all’interno di una ancestrale società patriarcale. Il film rimane impresso soprattutto per una riuscitissima ambientazione atavica dal respiro mitico, fuori dal tempo e dalla realtà, resa attraverso la raffinatezza estetica dell’immagine in bianco e nero, ove un paesaggio ieratico, irreale e fuori dal tempo, con aspre ed aride montagne a picco su un mare enigmatico, si compendia con la corporeità ruvida dei pescatori (insolita per la cinematografia della penisola araba la presenza diffusa di corpi seminudi, seppur maschili). Certamente gran parte del merito val all’ottimo lavoro del direttore della fotografia portoghese João Ribeiro.
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