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West Side Story

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su West Side Story

di EightAndHalf
7 stelle

Se escludiamo adattamenti che già erano stati trasposti su schermo in passato, West Side Story è il primo remake di Steven Spielberg, molto più un remake di Robert Wise e Jerome Robbins che non una semplice riproposizione alternativa del musical di Laurents/Sondheim/Bernstein. I carrelli e le folli coreografie ammiccano e citano quelle di Robbins, anche e soprattutto nei movimenti di camera. E' anche il primo musical di Spielberg, ed era solo questione di tempo, vista l'anima barocca e il traboccante sense of wonder che contraddistingue il regista di Cincinnati. 

Ed è proprio sul carattere barocco del suo cinema che sempre poco è stato detto: Spielberg sfrutta terreni noti (a questo giro letteralmente "già realizzati") per sperimentare e creare nuove maniere di muovere la macchina dello spettacolo - leggasi, la macchina da presa. Il suo occhio va ovunque, e in West Side Story combatte costantemente con la controluce per riuscire nel miracolo di mostrare la Luce. Verrebbe quasi da citare l'ultimo cinema di Malick, vista l'insistenza di fari e illuminazioni eccessive che animano i volti di Ansel Elgort (totalmente fuori parte, vero neo di un film altresì splendido) e di Rachel Zegler (dignità da soprano) e che, perennemente in scena, costellano l'inquadratura. Luci ravvicinate, colorate, filtrate: il lavoro visivo di West Side Story è da storia della tecnica audiovisiva, e non nasconde la follia del mélo che muove personaggi accecati dall'odio , prestandosi addirittura a tonalità sirkiane - per esempio quando Maria riesce a provare rancore per Tony per appena 10 secondi, le luci dalle finestre scolpiscono dei primi piani di sublime intensità. Qualsiasi antropologismo rinnegato, come illustra facilmente il divertentissimo numero del commissariato: il dramma è gratuito, irragionevole, pazzo.

Questa luce onnipresente in scena muove la macchina dello spettacolo per tentare di lambire territori inesplorati di incontro cinema-teatro: se Wise scriveva le nuove leggi del musical moderno costruendo dei palcoscenici dinamici, Spielberg quelle leggi le deve "riscrivere", e dunque con sottile ironia smaliziata insiste sull'assurdo del mélo, su palcoscenici impossibili e su una fusione recitativa che vede il "numero" musicale come idea molto più liquida, da distribuirsi come "tonalità" nell'intera messa in scena - i fiati dei Jets risuonano anche in momenti imprevedibili in OST - e non come segmento separato. Se non, addirittura, come "ostacolo": il ballo di Jets e Shark che interrompe e separa gli sguardi di Tony e Maria che percorrono la palestra.

Certe volte quei palcoscenici sono "letteralmente" impossibili, sfondano pareti (quella dietro la tribuna nella palestra) e aprono spiragli fra luoghi distanti (solo in un momento clou la camera di Maria si scopre essere connessa con il laboratorio di Anita).

Solo Spielberg è in grado di fare davvero quello che vuole con la sua mdp (crane-shot labirintici, plongée contre-plongée a piovere) facendo credere di star facendo "cinema classico". E' l'unico modo per mostrare la Luce, verrebbe da dire, e West Side Story farebbe vedere la Luce anche a un morto. 

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