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1917

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su 1917

di karugnin
8 stelle

Come un gol di tacco, voluto, cercato, a tre quarti partita.

Come un assolo di John Bonham, cinque minuti, non di più, verso la fine del concerto.

Il piano sequenza perfetto. Una chicca, a squarciare per breve, brevissimo tempo, l’egemonia che lo contiene.

Henry e Karen, dal parcheggiatore in strada, giù attraverso le labirintiche cucine, fin dentro il Copacabana, dietro a un tavolino che cammina, fin sotto il palco, strette di mano compiacenti, una bottiglia adulante...

“What do you do?”

”What?”

“What do you do?”

”I’m in construction.”

Titta Di Girolamo, dalla camera d’albergo, scortato giù, in... ascensore, cambio di soggettiva, corridoi, anziani col maglione a rombi a segnare il percorso, sala conferenze, “Ipertrofia della prostata”, la soggettiva cambia ancora, a sedere.

“Voi vi siete rubati la vita mia, e io mi rubo la valigia vostra.”

Mi fermo qui, giusto due tra i colpi di tacco che ho più amato.

Il long take che si protrae oltre i 5-6 minuti mi lascia, invece, sempre un po’ così. Figuriamoci quando ha la pretesa di durare, o simulare durata, per tutto il film. Uno sputo in faccia a Griffith, Eisenstein, Kubrick.

Ma poi mi trovo ad assistere ai primi cinquanta minuti di “1917” e il mio snobismo cinefilo s’incrina. Rimango annichilito per quasi un’ora, con un solo stacco di macchina più o meno alla mezz’ora, la più piacevole delle incredulità. Rapito sin dai primi, doverosi, dovuti richiami alle trincee francesi di “Paths of Glory”, immerso estaticamente nei movimenti sul campo di battaglia (che fu), proverbialmente inchiodato alla poltrona, a bocca presumibilmente spalancata, mi scuoto solamente quando quel ratto bastardo fa esplodere il rifugio (sarò fesso, ma non me l’aspettavo). Sull’aereo in picchiata trattengo a stento un applauso.

“Am I dying?”

”Yes... yes, I think you are.”

Poi, me ne accorgo quasi subito, l’incanto svanisce. Il tutto si... messicanizza, il piano sequenza perde il valore di strumento asservito alla narrazione e diventa causa primaria di ciò che accade intorno. L’effetto Playstation è spietato. La sceneggiatura a un dato punto è una fucina di paradossi. Il tempo dell’azione si suppone essere reale, non essendoci stacco di macchina dal protagonista, ma a un certo punto diventa notte e poi ridiventa giorno. Il tutto in meno di un’ora. Spiegatemela come se avessi sei anni.

Il finale potrebbe anche non esserci per quanto è stato blandamente raggiunto, e sulla corsa trasversale all’attacco bellico a un ragazzino potrebbe venir l’istinto di metter mano al joystick.

Ma non fa nulla: la lunghezza d’onda emotiva dei primi cinquanta minuti non si estingue, anzi, le vibrazioni acquisiscono forza man mano che il film tutto la perde. Mi piego al compromesso come poche altre volte ed esco dal cinema satollo e soddisfatto.

Cinquanta minuti sono quasi un lungometraggio, no?

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