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Out of Sight, Out of Mind

Regia di Brian Follmer vedi scheda film

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La recensione su Out of Sight, Out of Mind

di OGM
7 stelle

Quando il tuo amico matto è l'unico veramente libero. L'unico che, forse, può curare anche te.

Spostamenti. Una vita fuori asse. Per Travis ed i suoi amici la giusta non via non è mai quella retta. Seguire il proprio destino è un percorso tortuoso, che si deve intraprendere ad occhi chiusi, perché troppo confusa è la vista. Occorre cercare senza sperare di trovare alcunché. L’attesa che la sorte si compia è già un modo per passare il tempo, per dargli un significato attraverso il nonsenso generale, che ognuno ha interiorizzato, a modo proprio. Questo racconto apre le finestre, una alla volta, disegnando, intorno ad ogni personaggio, lo spazio vuoto necessario a fargli perdere l’orientamento, in mezzo a tanti stimoli non voluti e contraddittori, che pure rappresentano realisticamente il mondo. Brian Follmer, che in questo film interpreta Obi, l’individuo più fuori luogo, eppure più dotato di presenza scenica, dà libero sfogo ad un pensiero che è letteratura nel momento in cui nasce, sganciato com’è dalle imposizioni narrative, afflitto com’è da quella mancanza di peso che è tipica della follia più pura, priva di tristezza, di rabbia, di rancore, di tutte le zone fangose in cui il delirio rimane invischiato, non potendo più elevarsi all’altezza della sua poesia. Tutto ciò che è male è semplicemente un bene intonato senza maestria, allegramente infarcito di svolazzi dissonanti, che fanno del disagio una forma geniale di allegria. La miseria della provincia messicana, con la sua goffa inquietudine politica, i suoi surreali impulsi rivoluzionari, è il primo scenario che sbatte le retrovie in primo piano, perché facciano spettacolo delle loro brutte figure. La povertà materiale disgrega il paesaggio (fra ruderi, rottami, animali randagi e insetti infestanti), squarciando quel velo di decoro che, normalmente, tiene nascosta l’anima. Eccola comparire, allora, con tutto l’imbarazzo che suscita, nuda e festante, ubriaca di utopia, proprio nel cuore della terra in cui dire la verità è un pericoloso vizio. L’avventura latinoamericana di Travis è il la esotico che dà inizio ad un concerto coscienziosamente disarmonico, in cui il Follmer autore e regista cura maniacalmente i dettagli che si annidano nelle crepe della realtà, quelle spaccature della pelle da dove lo stress lascia affiorare le fini propaggini dell’assurdo. Il resto è una disavventura urbana che fugge da sé stessa per provare a comprare una casa in campagna, per tornare dalla madre, per andare in tournée, per inseguire la salute, per cercare la voglia di vivere ed incontrare un desiderio di morte. Obi è l’unico che davvero è coerente, nell’affondare  tragicamente in ciò che effettivamente desidera, una solitudine paranoica e incompresa, un annientamento dell’altro che inizia con l’azzeramento del sé che si riflette negli altri. Quel ragazzo ex rockettaro, attuale schizofrenico, ha imboccato l’unica ribellione veramente invincibile, che è il rifugio nell’inafferrabilità, nell’assoluta imprevedibilità che scombina i piani di tutti (soprattutto quelli di salvezza, intesi a fin di bene), e rende il rivoltoso inattaccabilmente coerente al proprio essere privo di classificazione. La storia, convulsa ed involuta, trova in lui quella spina dorsale di aberrante solidità che contrasta la spirale centrifuga di tanta energia adolescenziale che si è smarrita, essendo rimasta fuori, a vagare a casaccio, molti, troppi anni dopo aver deluso i genitori ed essere scappata di casa. È ormai una forza stanca ed arruffata, però impenitente e insonne, che tempesta la veglia di incubi scambiati per fantasie dei tempi moderni: la finanza online e le criptovalute, la fama di fama di youtuber, l’amore di Tinder, gli psicofarmaci per ogni occasione, l’indigestione che avvelena, e, al contrario, il digiuno che guarisce ogni male. La scrittura di Follmer ci procura un originale ed incantevole stordimento,  con i suoi eccessi umanamente insicuri, tecnologicamente malfermi, ma pieni di una insopprimibile carica vitale, elettrica, più masochista che godereccia: un contrappunto nervoso e scheletrito alla sinfonia barocca del benessere, in cui la carne si smaterializza per divenire un concetto sfuggente. Obi prouncia parole sconnesse, fa gesti inconsulti, aspira benzina, beve varechina. Il desiderio non è più il padrone della sua esistenza. A dominare, è la negazione globale che resiste, e che è sempre presente, mai incompleta.   

 

scena

Out of Sight, Out of Mind (2019): scena

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