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Lo strangolatore di Boston

Regia di Richard Fleischer vedi scheda film

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La recensione su Lo strangolatore di Boston

di Mr.Klein
8 stelle

La solitudine dell’uomo quando conquista la sua ambigua sedentarietà e trova la sua gabbia confortevole,ovvero un luogo sempre in ombra al cui riparo può diventare ossessione,si fortifica quando avvista e attira una mente talmente fragile,poco coltivata  e vulnerabile da diventare criminale,forse perché mai allenata a riconoscere e non varcare la linea di demarcazione tra Bene e Male.
Questo criminale,se non è sostenuto dall’intelligenza attiva capace di sconfinare nella provocazione al Potere (il gioco del gatto con topo),subirà la schiavitù di questa ossessione e la convivenza con l’immancabile nausea del risveglio successivo all’atto criminoso e con il demone che ha le chiavi della sua infelicità e della sua deformità morale.
Albert De Salvo si imparenta,nella sua esigua importanza sociale,soprattutto con il povero,anonimo M-il mostro di Dusseldorf di Lang,per il destino di impossibile soppressione del criminale che si diverte ad agitare l’animo della creatura che gli dà un volto,la quale troverà sfigurati i propri tratti somatici.
Fleischer e il suo sceneggiatore Edward Anhalthanno avuto la lodevole trovate di nascondere fisicamente il colpevole per tutta la prima parte del film,per puntare l’attenzione non tanto sull’ingegno del killer che non si fa trovare(anche perché questo ingegno,come si è detto,De Salvo non lo possiede),quanto sulla scarsità di risorse da sempre sfruttate per stanare un colpevole,inquinate dall’esigenza di rispettare la progressione di varie conclusioni che tracciano l’identikit del criminale soprattutto quanto è cosciente di sé,cioè  di chi opera con la lucida consapevolezza di mostrare la faccia unica del Male in contrapposizione alla ipotetica linda fisionomia del bene e,di conseguenza,esclude l’individuo succube di sé stesso perché difficilmente definibile o riconoscibile.
In quegli anni il cinema di genere americano abbandonava le timidezze con cui aveva in passato trasfigurato,anche con ottimi risultati,la scissione tra Bene e Male sostenuta da un rassicurante schematismo;e Fleischer,con quella scomposizione visiva che non distrae dal senso della trama,raffigura con innervata secchezza il circuito della giustizia e del suo referente politico non come un nucleo di inappuntabile nitore morale,ma come una società in cui il variegato cumulo di nozioni è riuscito a isolare l’identità criminale per poterla riconoscere ed analizzare senza,però,che ne sia completamente lontana perché composta da individui più perspicaci di altri nel riconoscerla e nel selezionarne le zone d’ombra ma non del tutto distanti dalla possibilità di esserne diversamente protagonisti,seppur in altri ruoli( si ricordi,a riguardo,il significativo dialogo di Bottomly con la moglie,durante il quale esprime un turbamento evidente anche se addomesticato su ciò che crediamo di essere e in realtà non siamo quasi mai).
Il modo stesso in cui Fleischer presenta per la prima volta De Salvo è esemplificativo di quanto siano minime le differenze tra la condotta dell’inseguitore e dell’inseguito : un individuo qualsiasi raggiunto nel suo domicilio domestico,confuso,stressato dal richiamo arrogante del Male che ha bisogno della sua mano e che gliela arma, nemmeno protetto dal suo nucleo familiare,di cui sembra non essere padrone e che non gli garantisce la salvezza,anche perché non conosce il suo malessere.
Le situazioni successive all’esordio nella pellicole di Tony Curtis ( il cui confronto recitativo ad armi pari e senza vincitori con Henry Fonda deve essere visto come esempio di due diverse generazioni d’attori che si sostengono a vicenda,in un’alternanza di rispetto e conforto reciproci  virili,sospettosi ma comunque solidali) rivelano l’agonia di un individuo disattivato nella sua coscienza morale e stupefatto davanti alla scoperta del volto dell’assassino che è sempre lui( il momento in cui De Salvo vede riflesso il suo proprio volto nello specchio dell’ appartamento dell’unica vittima che si salvi,rabbrividendo nell’attimo in cui si accorge che i suoi lineamenti sono stati da sempre rubati e contratti dal criminale che viene rimosso ogni volta che l’omicidio è compiuto)e la fragilità di un mostro senza fascino perché privo di calcolo e  precisione,doti indispensabili ai veri professionisti che lo braccano,caratteri forti in una giungla che sviluppa anziché reprimere l’eccitata spinta a uccidere.
Raccogliendo la proposta dell’accusa ai principi morali del Paese che proprio in quel periodo si andava affermando e che avrebbe trovato in autori come Altman gli esponenti della confutazione di quei principi che scivolano verso una legge non scritta ma comunque vigente,Fleischer estrapola e dispone gli aspetti e l’evolversi della psicosi collettiva con uno stile di spessore anti-contemplativo e refrattario al gusto dello shock (Hitchcock è già abbastanza lontano) che possiede la virtù non forzata da concetti e aggettivi che è più del resoconto che non del racconto di un’ossessione che non sa chiedere salvezza.
In tutto questo,è importantissimo che finalmente si usi un vocabolario sarcastico,esplicito e brutale( almeno per i tempi) e che la sceneggiatura eviti le contorsioni di appena un decennio prima per trovare nella sessualità e nella sua fame frustrata l’origine della degenerazione dei sentimenti e delle emozioni che si traducono in violenza per l’analfabetismo morale che impedisce in un animo fragile il compimento di un processo di innocenza.
Anche se legato ad alcune convenzioni di scrittura rintracciabile in questo tipo di produzioni(la caratterizzazione spinta fino alle soglie del patetico della larva umana O’Rourke,o l’esagitata incursione del sensitivo tedesco),Lo strangolatore di Boston travalica l’idea stessa di cinema di genere per cercare di riesaminare i limiti offerti dal manicheismo sociologico per schedare la personalità di chi si spegne dentro sé stesso,e mette in discussione la validità dei responsabili di queste compilazioni.
Il De Salvo che chiude il film è un figlio illegittimo del sistema,un emarginato in cerca della casa del padre che cambia sempre domicilio,e passa dalla gabbia senza pareti della metropoli a quella di una stanza in cui si perdono le tonalità e il bianco non è simbolo di candore,il carattere non esiste se non nel suo essere insieme di “comportamenti” che si accorpano alla prima diagnosi utile alla società che lo cerca,lo scruta e lo identifica ma non lo salva.

Su Richard Fleischer

Padronanza perfetta del tempi drammatici della vicenda,a cavallo tra la solida esperienza del mestiere dei classici e le novità di esigenze narrative che sarebbero diventate necessarie nelle loro recrudescenze,sia visive che verbali.

Su Tony Curtis

Un’interpretazione esemplare,tanta è la pazienza e lo sfinimento di quest’uomo che ha in sé l’autore dell’abuso che patisce.Deve essergli costata molto questa prova perché non ha soltanto valore di invenzione,di ricerca attoriale,soprattutto perché egli accetta forse per la prima volta l’aggressione della maturità su quel volto da prepotente,travolgente ragazzo dei sobborghi che dimentica il suo entusiasmo e la sua spericolata vivacità:un salto nel vuoto di cui accetta il terrore di non sapere scegliere quale energia sia necessaria per toccare il suolo senza ferirsi.

Su Henry Fonda

Viene spesso in mente,quando si parla di lui,il termine “nobile”,e in questo caso la nobiltà del suo mestiere si adopra per indagare il carattere di Bottomly nella sua guardinga mobilità interiore,che si ferma davanti al dubbio della liceità dei metodi messigli a disposizione.Il rigore e la malinconica temperatura emozionale con cui Fonda delinea il suo personaggio hanno una saggezza struggente,solitaria,tutta decisa da un gesto che rende definitiva e inoppugnabile la mediazione tra l’uomo e l’attore.

Su George Kennedy

Ciò che in Fonda è perplessità e riflessione,in Kennedy è laconica sfiducia in ciò che si chiama dovere.

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