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Parasite

Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Parasite

di omero sala
8 stelle

locandina

Parasite (2019): locandina

 

La trama è talmente inverosimile che non si può non pensare che l’intento dell’autore sia marcatamente quello di costruire un pamphlet metaforico surreale e grottesco che se ne frega della coerenza narrativa e della credibilità delle situazioni.

Il regista (Bong Joon-ho) costringe così noi sedicenti intellettuali occidentali (non so come possano reagire altri di altre culture) ad abboccare e a digerire tutto. 

Che tanto noi siamo abituati a contorsionismi mentali, amiamo abbandonarci a sofismi e autocompiacimenti esegetici, ci crogioliamo nelle pieghe della nostra logora cultura ipercritica, autoreferenziale, confusa, piena di contraddizioni, impastata di imperativi etici e sensi di colpa, guidata da rigori aristotelici e da incoerenze, piena di dogmi e consapevole al tempo stesso della forza invincibile del caos. 

 

Trama bislacca, dunque, e metafore a gogo.

 

Sulla trama stravagante si fa presto a dire: quattro componenti di una famiglia scalcinata, di perdenti - i Kim: padre disoccupato, madre casalinga, figlio e figlia adolescenti - vivono stipati in un sudicio tugurio seminterrato pieno di scarafaggi nella periferia più degradata della caotica Seul.

Con una serie diabolica di stratagemmi si infiltrano gradualmente, come parassiti, in una famiglia altolocata e ricca, straricca, simmetricamente costituita da quattro membri - i Parks: padre funzionario in carriera, madre nullafacente, figlia liceale diligente, figlio psicotico, ipercinetico, ragazzino indisponente, incontrollabile, viziato, testardo come un mulo.

Il giovane Ki-woo va ad occupare il posto di insegnante di inglese, una specie di tutor della ragazza di buona famiglia, conquista la fiducia dei ricchi borghesi (ed anche il cuore della sua allieva) e con diversi espedienti e sotterfugi un po’ criminali, talvolta drammatici, sempre esilaranti, fa assumere prima sua sorella Ki-jung come “arteterapista” del ragazzino un po’ disturbato, poi manovra per far assumere sua madre Chung-sook come governante, infine procura l’ingaggio a suo padre Ki-taek come autista; tenendo ovviamente nascosti i legami di parentela. 

I quattro miserabili morti di fame abbandonano così la loro catapecchia e, ripuliti per bene, si insediano in una villona extralusso di design, piena di ogni confort. Ognuno di loro, espletando alla perfezione il suo ruolo, diventa indispensabile nell’ingranaggio routinario dei “padroni” appagati, felici, inconsapevoli della trappola perfetta e dell’eccelso cinismo della banda Kim. 

 

A metà film, colpo di scena! 

La trama stravagante si fa assurda: scopriamo che l’immensa villa è dotata di sotterranei dei quali nessuno conosceva l’esistenza; che nei sotterranei è ospitato da anni il marito della ex-governante, licenziato dai signori per qualche ragione e tenuto nascosto e mantenuto in segreto dalla moglie. Lo scopriamo in una notte buia e tempestosa quando la governante licenziata (anzi, fatta licenziare dai diabolici Kim) torna inaspettatamente alla villa per trovare il modo di occuparsi del marito rintanato nei sotterranei: al suo arrivo trova i Kim che fanno baldoria in assenza dei padroni, scopre le loro macchinazioni, li ricatta. Il castello di menzogne traballa pericolosamente. (Ma il padre Kim, nel momento estremo di difficoltà, dice imperturbato: “Se non hai un piano, niente può andare storto”).

 

La metafora, nei suoi tratti essenziali, è subito evidente. così come il valore plurisignificante del titolo: siamo di fronte ad una specie di affresco della società, una sorta di giudizio universale (una rappresentazione della divina commedia coi gironi dell’Inferno, le balze del Purgatorio e gli spazi del Paradiso; con eletti, redenti e dannati). In alto sono collocati i ricchi avulsi, parassiti per definizione, che volano totalmente staccati da tutto e da tutti; in mezzo si collocano i quattro servitori-imbroglioni, parassiti dei ricchi; sotto, nei sotterranei altri parassiti che diventano parassiti dei parassiti dei parassiti. Dinamiche complesse, connessioni incrociate, in dimensioni inaspettate e paradigmi insoliti.

 

Il film offre mille spunti detonanti per considerazioni politiche, antropologiche, sociologiche e perfino urbanistiche; sollecita riflessioni sulle dinamiche di classe, sul capitalismo, sullo sfruttamento, sulle disparità, sulle strategie di lotta, sui mezzi leciti o illeciti di autoaffermazione o di ascesa di classe, sulla rigidità degli assetti sociali in generale; e fornisce anche elementi di riflessioni sconfortanti sulla nostra cultura, sulle nostre discutibili superfetazioni filosofiche, esistenziali ed etiche, sui nostri modelli di armonia, sulle nostre categorie estetiche, sui nostri stilemi artistici, sul nostro concetto di satira e perfino sulla nostra idea di cinema.

E offre il senso generale della nostra confusione, della lenta ma inesorabile decadenza, della imperturbabile consapevolezza della deriva.

Senza lasciarsi tentare, nemmeno lontanamente, dalla schematicità marxista che intende spiegare tutto con modelli superati dalla realtà liquida (semmai appare più vagamente ispirato, o almeno affine, a certe intuizioni del duro Pasolini che  cinicamente sosteneva che i proletari che invocano la rivoluzione vogliono semplicemente prendere il posto dei capitalisti).

Spesso per individuare la sostanza complessa dei problemi è necessario guardarli da una certa distanza.

L’opera comunque ha l’immenso merito di non prendere posizione, di non farsi retoricamente ideologica, di non lasciarsi tentare da fervori umanitari, di non approfondire più di tanto le dinamiche complesse fra classe dominante e proletari, fra padroni e servi, fra vincenti e perdenti.

Non cede nemmeno lontanamente alla tentazione di assumere i toni dell’operetta morale. Resta, come i Kim, un apologo amaro. E il regista si rivela un cinico sovvertitore a tutto campo, non solo della trama ma anche dello spirito ispiratore.

   

Il cenno all’affresco mi ispira una considerazione forse marginale ma, per me, estremamente suggestiva: moltissime inquadraturericordano scene ricorrenti negli affreschi e nelle tele della storia dell’arte studiata a scuola, con protagonisti che in primo piano agiscono o comunicano fra di loro e altri personaggi che sullo sfondo, talvolta nascosti, ascoltano (e apprendono o carpiscono informazioni), agiscono o tramano, si distraggono e si fanno gli affari loro (pensiamo alle complesse tavole di Bosh). 

Il regista Bong Joon-ho mostra di prediligere i campi lunghi, che mostrano i movimenti collettivi di scena e le dinamiche dei gruppi contrapposti.

 

Anche le abitazioni dei Kim e dei Parks offrono elementi interessanti di riflessione: il tugurio dei Kim che li stringe sempre tutti nell’inquadratura, brutti, sporchi e cattivi ma uniti; il disordine (immaginate gli odori), la finestrella da cui si vede il vicolo e l’ubriaco che piscia sui vetri, il lavoro precario e mal pagato che rinsalda la solidarietà, la comica ricerca affannata di connessioni wi-fi aperte, indispensabili per sopravvivere. 

Di contro la villa sontuosa dei Parks, belli e disgregati, con spazi infiniti e dispersivi, con l’enorme finestra-parete che obbliga a guardare fuori una realtà irreale, con l’arredo razionalista e freddo, i soffitti altissimi, le scale aperte (salite e discese in evidenza: il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e c’è chi sale), gli spazi privi di luoghi di incontro, le linee essenziali e algide, le tinte ton sur ton che smorzano le emozioni. L’ordine quasi esanime contro il caos fecondo.

 

Tornando al titolo e al discorso sui parassiti, appare paradigmatica la scena in cui Kim padre, infognato coi suoi nel bugigattolo, ordina di aprire ii finestrini a vasistas dello scantinato al passaggio delle autobotti dei disinfestatori in modo da far entrare in casa i vapori antiparassitari dei servizi di igiene pubblica.   

 

Ultima considerazione: ad un certo punto un morituro da sottoterra, azionando un interruttore (a testate!), riesce a lanciare segnali di richiesta di soccorso nella disperata illusione che qualcuno veda e capisca. 

Mi viene il sospetto che il prigioniero ci rappresenti e che i destinatari delle invocazioni di aiuto siano distratti da altro o non decifrino il messaggio.

E che tutto finirà in merda, con le fogne traboccanti che elimineranno ogni parassita, noi compresi.

 

Woo-sik Choi, So-dam Park

Parasite (2019): Woo-sik Choi, So-dam Park

 

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