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Ottobre - I dieci giorni che sconvolsero il mondo

Regia di Sergej M. Ejzenstejn vedi scheda film

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La recensione su Ottobre - I dieci giorni che sconvolsero il mondo

di spopola
10 stelle

Un film basato su un travolgente virtuosismo visivo costruito con la tecnica studiata e teorizzata dal regista che è quella del montaggio, inteso però non come semplice mezzo di collegamento e di raccordo, ma come riconoscibile strumento che definisce lo stile e quindi sviluppato in forma espressivo-narrativo

Ottobre è un film sulla rivoluzione, e soprattutto su una rivoluzione permanente. Era stato chiesto a Ejzenštein un film per celebrare il passato e lui ci ha consegnato un film per il futuro (Aldo Grasso – Il Castoro cinema) che anziché offrire una cronistoria di quella rivoluzione che avrebbe dovuto capovolgere le sorti del mondo intero, presenta le sue personali riflessioni su quei fatti, evitando luoghi comuni  e tentazioni  trionfalistiche, attraverso  la rielaborazione linguistica di quegli avvenimenti e l’applicazione pratica di un progetto ambizioso (qui messo puntualmente in pratica) finalizzato a realizzare un cinema “intellettuale”(così lo definisce nei sui scritti teorici) atto a formare una più consapevole coscienza collettiva delle masse.

 

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Ejzenštein (con la collaborazione di Grigori Aleksandrov)  scrisse la sceneggiatura di Ottobre (che resta uno dei capolavori assoluti e indiscussi della storia del cinema) lavorando su una enorme massa di materiali informativi (non ultimo, il libro di John Reed I dieci giorni che sconvolsero il mondo) rendendo però il tutto  tutt’altro che conforme a quello che aveva richiesto la committenza (il governo politico dell’URSS).

Sulla base dei documenti e della Storia (quella con la lettera maiuscola), sui quali meditò a lungo, costruì   un racconto fedele ai fatti ma totalmente piegato alle sue esigenze[1] di regista. Ne uscì così fuori un’opera anomala indubbiamente  “celebrativa” ma in una maniera molto speciale (a suo modo, si potrebbe dire)  dove prevale il lato sperimentale della messa in scena che tiene conto di quella  proposta innovativa a cui  ho accennato prima che si svilupperà per tutto il suo percorso operativo.

Si può dire allora che se la Rivoluzione d’Ottobre è stata il tentativo di conquistare una coscienza politica di rivalsa anche sociale, il film rifiuta di diventare una sbiadita copia di quell’avvenimento epocale e rappresenta invece il punto più alto di una elaborazione concettuale (un tantino utopica)  che da anni il regista perseguiva con tenacia e determinazione che era poi quella di arrivare a realizzare, nell’epoca del muto, un cinema capace di comunicare attraverso concetti astratti (o, come dice ancora Grasso, di utilizzare il linguaggio della dialettica cinematografica) e mettere così  fine al contrasto spesso contrapposto fra il “linguaggio della logica” e il “il linguaggio  delle immagini”.

In questa sua opera davvero magistrale, manca dunque la rievocazione trionfalistica degli eventi al tempo stesso “tragici” e “gloriosi” della rivoluzione già di per sé fortemente retorici (che alla luce dell’oggi avrebbero potuto risultare persino fortemente anacronistici per come poi sono andate a finire le cose) poichè pur di fronte a un tema che, nel bene e nel male, era obbligato e consentiva poche deroghe, fu da lui scelta ancora una volta una strada meno conciliante che trova il suo perno in una ricerca formale di eccezionale rilevanza, efficacissima e tutt’altro che fine a se stessa.

Il suo è infatti un film basato su un travolgente virtuosismo visivo costruito con la tecnica da lui stesso studiata e teorizzata che è quella del montaggio[2] (inteso però non come semplice mezzo di collegamento e di raccordo,  ma come riconoscibile strumento che definisce lo stile e quindi sviluppato  in forma espressivo-narrativa). Il montaggio insomma utilizzato per contrapporre in maniera più creativa e originale, il rapporto/conflitto fra inquadrature anche di differente natura, così da  accentuare l’interiore espressività della vicenda, e attraverso questa,  trasmettere emozioni e idee di riflessione allo spettatore e rendere così tangibilmente comprensibile – pur nella “celebrazione” dell’evento - l’ironia, la satira e il prepotente sarcasmo che in modo sottile attraversano di soppiatto tutta la pellicola (vedi a titolo di esempio, il montaggio che mette di fronte al menscevico Kerenskij l’immagine del pavone creando così una specie di  identificazione critica, o la sequenza in cui i corpi dei  rappresentanti del potere reazionario spariscono letteralmente  dalla scena, si dissolvono e dei quali alla fine non restano altro che dei vestiti vuoti).

 

Lo spettatore viene dunque coinvolto emotivamente dal frenetico scorrere delle immagini che evocano l’esplosivo processo di liberazione dallo stato di arretratezza economica  della nazione che avrà poi però un successivo periodo di grande repressione epurativa (le drammatiche fasi che accompagnarono la nascita del nuovo stato russo).

Nonostante il suo valore però, il film che aveva goduto di una totale autonomia (anche economica[3]) nella fase della sua realizzazione, non piacque poi al regime che lo fece oggetto di un ostracismo feroce: delle quattro opere portate a termine da Ejzenštein per commemorare l’importante anniversario, questa è senz’atro quella che è stata più bersagliata dalle critiche, soprattutto in Russia.

Fu accusata infatti di irrealismo, di un gratuito compiacimento estetizzante, di un insopportabile, eccessivo sperimentalismo e sottoposta conseguentemente (prima della sua rappresentazione ufficiale avvenuta il 14 marzo 1928 al teatro Bolshoi di Mosca) a pesantissimi tagli (più di 30 minuti) che decretarono  l’eliminazione delle scene che vedevano la presenza di Trotskij e Zinovev, nel frattempo caduti in disgrazia.

 

La vittoria del popolo in Ottobre non è  semplicemente la presa dei Palazzo d’Inverno, ma molto di più. In realtà i cancelli del Palazzo d’Inverno non erano chiusi e non c’era alcun bisogno di scavalcarli. Ma scavalcarli significava superare definitivamente non solo lo zarismo, ma anche il regno degli oggetti che erano marchiati dal segni del potere come le aquile e le corone che troneggiavano sulla cancellata. Gli uomini che la scavalcarono utilizzarono tutti quegli ornamenti  araldici come gradini da calpestare e si appropriarono poi pure di tutti gli altri oggetti di ogni specie che ornavano le mille stanze del palazzo:  giocattoli bizzarri, cianfrusaglie, orologi d’ogni genere, etc. etc. Ottobre ci racconta dunque l’ansia di liberazione dell’uomo, il suo bisogno di cielo, di spazio,di libertà per poter dare  finalmente libero corso al proprio pensiero”. (Viktor Borisovi? Školovskij)[4]

 

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Il film è ambientato a Pietroburgo nel febbraio del 1917, quando era al potere il governo oppressivo di Kerenskij. I bolscevichi, guidati da Lenin tornato appositamente dall’esilio, si stavano preparando  all’insurrezione di ottobre che li porterà a conquistare  il Palazzo d’Inverno (ci entrarono dentro passando anche  dagli scantinati dell’Ermitage, il celebre museo che allora faceva parte della residenza degli zar).

Tutti gli avvenimenti che segnarono quella data fatidica sono rispettati: l’arresto dei membri del governo e la successiva formazione del congresso sovietico dei rappresentanti dei contadini, dei lavoratori e dell’esercito (ormai guidato da Lenin) ed è proprio questa in sintesi  la storia che racconta Ottobre.

 

Molte cose si sono dette e scritte nel corso degli anni su quest’opera cardine della filmografia di un regista che provò a rivoluzionare teorie e pratiche  della Settima Arte.

Parlare oggi di una pellicola tanto nota (ma adesso purtroppo poco frequentata) può dunque servire a tenere viva la memoria e  a ricordarci (cin un po’ di rammarico) quello che il cinema – e non solo il cinema – avrebbe potuto essere e non è stato se le cose si fossero sviluppate in un’altra direzione. A noi dunque non resta che  il piacere di poterne celebrarne la grandezza quasi un secolo dopo mettendo  in evidenza che oltre a tutto quello che ho già scritto sopra, è un film indiscutibilmente commovente ma che ha al suo interno anche una forte carica di violenza che incita alla rivolta per quel che mostra (l’impressionante crudezza del sollevamento dei ponti, il marinaio linciato da una disgustosa folla di borghesucci, l’uomo che spara sulla folla in un violentissimo alternarsi del suo primo piano con due differenti inquadrature  del mitragliatore, il cadavere del cavallo che penzola nel vuoto, i volti segnati dalla sofferenza e dalla rabbia degli operai e dei contadini che si ribellano istintivamente e con coraggio all’autorità) e dice (le didascalie creative perfettamente integrate nel montaggio che non creano mai alcuna sospensione o frattura nel ritmo di una  messa in scena priva di un tempo sistematico ma basata su ellissi temporali legate fra loro dall’uso delle simbologie del cosiddetto “montaggio intellettuale”.

E’ insomma un film che lavora magistralmente sui corpi  trasformandoli in un’icona rivoluzionaria nel solo mostrarli sullo schermo e che inneggia a un futuro  che il regista  vorrebbe capace di saper rifiutare la gretta accumulazione del denaro, l’ossessione del possesso e del potere.

 

Da una parte gli uomini e dall’altra le cose e  non c’è dunque da meravigliarsi più di tanto se il film non fu subito capito dal pubblico di allora poiché richiedeva un lavoro intellettuale sproporzionato alla capacità culturale media dell’URSS post zarista (e parlo degli spettatori). Ma alla massa della critica sovietica, la cosa non si può proprio perdonare perche il denigrare l’opera, il non volerle riconoscere i grandi meriti del regista nel suo definire in maniera esemplare il confronto/scontro che il film instaura fra l’opera d’arte tradizionale e quella veramente rivoluzionaria, fu un atto di totale, codardo  asservimento al potere.

I critici di professione possedevano infatti gli strumenti giusti per valutare in positivo la straordinaria funzionalità delle sequenze di taglio breve o trasversale che fossero,  e il particolare uso che il regista fa di questa specifica peculiarità che acquisisce un valore prioritario nella struttura dell’intera opera.

Le risorse tecniche a disposizione diEjzenštein erano già molto avanzate rispetto agli anni precedenti (poteva scegliere tra carrellata e stacco, tra panoramica ed effetti di gru, tra ritmo lento e rapido per esprimere un tema ed un soggetto) e lui le usa tutte nell’espletare il suo memorabile lavoro che nessuno davvero poteva disconoscere se fosse stato in buonafede. Che dirfe allora se non che quella critica orba, era tenuta a guinzaglio da Stalin e la sua cricca?

 

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L’ottimo apporto fornito dai suoi collaboratori più stretti è quello di Eduard Tissè per la fotografia e di Dimitri Shostakovic (che aveva già fornito la partitura sonora per la  Corazzata Potemkin ripresa dalla Sinfonia n° 11 in sol minore,  op. 103 scritta nel 2005) per il commento musicale. I protagonisti furono invece scelti direttamente nelle piazze e nelle fabbriche di Leningrado per dare ancor più veridicità alle azioni collettive della massa (fra questi, V. Nikandrov che ricoprirà il ruolo di Lenin e N. Popov al quale fu affidato quello di Kerenskij).

 

[1] Ejzenštein con il suo percorso creativo pratico e teorico, ha definito e chiarito nella maniera più completa ed esaustiva possibile cosa si intende per monologo interiore nel cinema in rapporto con la  che ne aveva fatto già buon uso (si ricordano in proposito i suoi incontri con Joyce in relazione al progetto poi purtroppo naufragato, di portare sullo schermo l’Ulisse e la difesa che dello scrittore egli fece nell’Urss).

 

[2] Ejzenštein ha trasferito al cinema la cosiddetta teoria del “montaggio delle attrazioni”  che deve interpretare e non mostrare solamente raccordi di racconto. Secondo il suo pensiero infatti (e sono parole dello stesso regista) nel cinema quel che importa non sono i fatti mostrati, ma la combinazione delle reazioni emotive del pubblico. E’ teoricamente e praticamente pensabile, quindi, una costruzione senza legame di soggetto, che non si preoccupi neppure di essere logica e conseguente. L’importante è che sia capace di provocare una catena di riflessi condizionati, associati per volontà del montatore agli avvenimenti introdotti, che ambisce a stabilire una nuova catena di riflessi. Ottobre fa dunque tesoro di queste regole che possono essere sintetizzate in questo principio basilare: via le figure individuali (gli eroi che spiccano sulle masse) e via anche  la catena convenzionale degli avvenimenti. Secondo il regista infatti, tanto il mettere in risalto la personalità dell’eroe quanto la sostanza stessa della trama-narrazione, sono prodotti di una concezione classista del cinema. Ottobre  è dunque l’esempio più puro ed evidente  della straordinarietà innovativa di questa sua modalità operativa. A posteriori, si può dire che è proprio nella struttura architettonica del montaggio, nella sua fredda e rigorosa costruzione, che si percepisce la speranza – e la follia -  di un artista che sta sulla soglia di quello che credeva potesse diventare un coraggioso mondo nuovo al quale vorrebbe poter dare il suo contributo artistico.

Guido Aristarco su questo argomento (L’utopia cinematografica, Sellerio editore, 1986 p. 51) ha scritto: “Con Ottobre Ejzenštein ha anche offerto la riflessione più approfondita e articolata sul montaggio nel contesto del materialismo storico. Partendo appunto da questo, definisce anzitutto il montaggio come conflitto: di direzioni grafiche (linee statiche e dinamiche); conflitto di piani, di volumi, di masse (volumi pieni di varie intensità) di luce. Conflitto di profondità (primi piani e campi lunghi); di pezzi con direzioni graficamente diverse (pezzi che si risolvono in volumi contrapposti a pezzi che si risolvono in aree); di pezzi oscuri e pezzi luminosi; conflitti fra un oggetto e le sue dimensioni, tra un avvenimento e la sua durata. A questi e altri conflitti all’interno dell’inquadratura, aggiunge i conflitti tra le varie inquadrature. (…) Il montaggio non è dunque inteso solo come mezzo per produrre certi effetti (la suspence, ecc.) ma anche e soprattutto per parlare, per comunicare idee e farlo  attraverso uno speciale linguaggio cinematografico, una forma speciale di discorso filmico, come l’impiego della pars pro toto, del particolare in cui leggere l’intero: Il particolare non esiste se non in relazione al generale. Il generale esiste soltanto nel particolare, attraverso il particolare (Lenin)”.

 

[3] Con l’intento di far ricostruire la vicenda in una forma cha la committenza avrebbe voluto che fosse realistica e agiografica, furono messi a disposizione del regista mezzi davvero ingenti non solo di carattere economico, ma anche di tipo militare . Tutto questo, insieme all’autorizzazione incondizionata di poter girare nei luoghi che furono il teatro di quegli avvenimenti come il Palazzo d’Inverno. Oltre alle armi e munizioni, furono rese disponibili anche migliaia di comparse fra cui numerosi volontari combattenti che avevano partecipato all’insurrezione. Non solo: quando fu necessario disporre di un flusso eccezionale di energia elettrica, fu addirittura  lasciata al buio l’intera città di Leningrado per non interrompere la lavorazione. Ejzenštein ricorda così quei giorni: “le riprese iniziate il 13 aprile 1927, durarono parecchi mesi: si lavorava in condizioni di estrema tensione, anche quattordici ore al giorno. Una notte dopo l’altra, quattro o cinquemila operai di Leningrado, si offrivano volontari per partecipare all’assalto del Palazzo d’Inverno… Il governo forniva le armi e le uniformi insieme all’esercito. Lo stato ci prestò pure la celebre corazzata “Aurora”insieme ai carri armati e all’artiglieria”. E questo ci consentì di lavorare tranquilli sotto l’aspetto dei finanziamenti per tutta la durata delle riprese.

 

[4] Viktor Borisovi? Školovski (1893-1984) è stato uno scrittore e critico letterario che diede al formalismo russo  un importante contributo col saggio “L’arte come artificio” (1917) e che, nel periodo dello stalinismo, rivolse il suo interesse primario al cinema scrivendo recensioni e sceneggiature. Lavorò e si espresse a stretto contatto con l’avanguardia futurista, acquisendo la fama di intellettuale polemico e provocatorio.

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