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Cronaca familiare

Regia di Valerio Zurlini vedi scheda film

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La recensione su Cronaca familiare

di LorCio
10 stelle

Valerio Zurlini. Dio, che regista. È oltremodo scandaloso vedere come sia sottovalutato un signor regista del genere. È quantomeno strano non leggere il nome di Zurlini nelle convenzionali liste sui migliori registi, italiani e non. Eppure è proprio di Zurlini una delle voci più importanti del panorama cinematografico. Ne è la dimostrazione quello che, assieme a La prima notte di quiete di una decina d’anni più tardi, è il suo capolavoro: dal romanzo di Vasco Pratolini (autore di cui già si era servito nell’esordio Le ragazze di San Frediano), Cronaca familiare è uno di quei film talmente potenti da finire sotto la pelle sedimentandosi con sottilissima e al contempo devastante forza.

 

È una storia d’amore, un amore tra fratelli che dapprincipio si sono indifferenti (probabilmente il più grande, Enrico, odia il più piccolo, Lorenzo – e non Dino, nome troppo volgare per il Barone –, perché complicazioni al suo parto hanno ucciso la madre) e con il tempo, forse troppo tardi, recuperano un rapporto basato sulla schiettezza e sull’affetto più gratuito. Come ben dice Enrico a Lorenzo in un momento del film, “io non ti voglio bene non perché sei mio fratello”. È un film di conoscenza, un racconto di formazione che non riguarda una sola persona, ma un legame, un luogo specifico (o una nuova entità, come si vuole) in cui due esseri si completano, in cui l’Io è sostituito dal Noi, in cui le distanze si accorciano, la lontananza delle anime si azzera in nome di un sentimento puro e nobilissimo che riaffiora da sola, senza che nessuno faccia alcun che di particolare per riaffermarlo. Un incontro breve e tardivo che vale una vita.

 

Raccontata in prima persona con estrema afflizione, quasi a voler riconnettere ogni momento e allo stesso tempo abbandonarsi all’irrevocabilità mesta del divenire, è un struggente racconto di espiazione. La vicenda si svolge negli anni trenta ed è un elemento importantissimo. La contestualizzazione temporale induce a pensare che solo in una stagione del genere poteva aver luogo una storia così. In quei luoghi che ricordano con precisione le opere di Ottone Rosai (provate a vedere i quadri Via Toscanella o Il muro rosso e associateli a determinate sequenze, specie nella prima parte, dato che nella seconda si privilegiano, per ovvi motivi narrativi, gli interni), di cui si percepisce l’umidità, l’atmosfera oserei dire quasi spirituale, quasi come se ‘entrando’ in Cronaca familiare si acceda in un luogo sacro – e se si parla del concetto di Dio in molti momenti della lirica ultima parte, quella in cui la paura prende il posto della speranza.

 

È una storia in cui si aggira come un fantasma evidentissimo (tra i colori della splendida fotografia di un Giuseppe Rotunno che conferisce plastica forza alle emozioni evanescenti che aleggiano in qualunque punto dello schermo) la morte, che si presenta definitivamente in un’ultima mezz’ora di straordinaria potenza. “Tutte cose morte”, come dice Lorenzo, ormai malato e sul viale del tramonto della sua autunnale esistenza. In questo commovente e placido dramma contano molto i gesti e le parole: lancinante la scena in cui Lorenzo implora il fratello di stringergli il polso (“scaccerai le mosche dal mio viso”) o la sequenza che segue quella in cui Enrico torna dal fratello senza la marmellata di arance (come se fosse “qualcosa di assurdo, un pezzo di Marte”) che l’infermo Lorenzo gli aveva chiesto (“se un giorno volessi dell’erba non crescerebbe più sui prati” è una frase che uccide perché elude dalla condizione vittimista e supplica una pietà umanissima).

 

È un’indagine emotiva sull’irrazionalità dei sentimenti, profondamente dolente e sobrissima, in un sommesso pianto di silenzioso rigore, in cui la musica di Goffredo Petrassi raggiunge picchi di sublime intensità. Fantastico nella malinconica e nervosa sofferenza del suo dolente Enrico, Marcello Mastroianni mette a segno una delle interpretazioni più clamorose della sua carriera, assistito dalla bella e matura prova del giovane Jacques Perrin. Uno di quei film che ad ogni visione susciterà nuove riflessioni, nuovi spunti, nuove cose. Che va oltre, come una notte di quiete.

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