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Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti

Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film

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La recensione su Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti

di MarioC
5 stelle

Il mondo di Lina Wertmuller, e il suo caos bonario, all'ennesima potenza. Un complicatissimo ed inestricabile intrigo di dialoghi, battute, urla, sangue. Al netto della confusione, un film sincero e consapevole dei propri ancestrali difetti.

 

L’universo di Lina Wertmuller è caotico, fracassone, sbrindellato, anche eccessivo e slabbrato, però inevitabilmente vitale. Nei suoi film più riusciti c’è una maschera d’attore (Giannini) che diventa tutt’uno con il personaggio e lo gonfia di tic e sintassi reiterati, sino a conferirgli piena patente di veridicità eccessiva ma mai artefatta; e c’è un contraltare d’attrice (Melato) che tiene botta senza problemi, così che, mescolando il tutto, il risultato è una sbobba pienamente digeribile, in quanto divertente, scanzonata, in fondo anche “socialmente riflessiva”. Nella maggior parte delle opere, invece, la regista non riesce a realizzare quella miracolosa compenetrazione tra attore e personaggio, dando corso a vere e proprie tarantelle di tipi e macchiette cui neanche grandi attori riescono a donare linfa di vita autonoma.

 

In Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti (titolo himalayano, come nella migliore/peggiore tradizione della Wertmuller), è impegnato un mostruoso parterre de roi di interpreti: Angela Molina (perfetta nel ruolo della prostituta dal cuore d’oro e dalla dolente vita, ma pur sempre spaesata profuga bunuelana), Harvey Keitel (ancora non cattivo tenente, ma già luciferino trafficante di stupefacenti dal metafisico nome di Frankie Acquasanta), Francisco Rabal, Paolo Bonacelli e l’outsider Danier Ezralow, all’epoca notissimo ballerino con volto efebico e corpo da capriccio per signora, che, naturalmente, balla e si dimena, sino al sacrificio finale tra i vicoli di una Napoli tossica e che, a conti fatti, rappresenta un po’ a sorpresa il più convincente del lotto, escludendo comunque la Molina, assolutamente una fuoriclasse ma come ingabbiata in un copione che la relega ad un ruolo troppo connesso alla mirabile immagine gitana.

 

 

Il difetto di Lina Wertmuller è che strafà, il pregio è che vuole consapevolmente strafare; per cui, infischiandosene delle concordanze di tempo luogo e spazio, delle smagliature di una sceneggiatura arruffata e sentenziante, costringe i propri personaggi/tipi a saltellare, a declamare, a recitare scene madri come se sapessero che sono, devono essere, scene madri. Il montaggio incede tra quelli che sembrano tagli e buchi irrisolti e irrisolvibili, gli interpreti di contorno, tra una sigaretta finta in bocca ed uno sdrucito abito vedovile, compaiono, scompaiono, riappaiono, approssimano una interpretazione, si guardano intorno alla ricerca di una verità, quindi ci conducono per mano, tra morti ammazzati e siringhe infilzate nei genitali, alla agnizione finale che vorrebbe inserirsi (in parte anche riuscendoci) in un solco di critica sociale, sulla bontà della cui ispirazione non è tuttavia lecito dubitare.

Intorno brulica una Napoli di icastica e un po’ melensa raffigurazione. C’è tutto: i vicoli del titolo, le malefemmine col cuore in lutto e la hybris tascabile, il sole, le canzoni al suono del mandolino e delle voci sparate, i cattivi, i morti, la camorra, la droga, i piccirilli in pericolo. E poi una storia d’amore impossibile e tragica, i femminielli ante politically correct, il sesso appena accennato (impagabile la telecamera che, con in sottofondo la voce da maschio in calore di Frankie, vira su leggiadre stampe muliebri alle pareti). Un complicato intrigo e un sicuro pasticciaccio. Talmente trash, comunque, da sfiorare il sublime.

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