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Un affare di famiglia

Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film

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La recensione su Un affare di famiglia

di Peppe Comune
8 stelle

Dopo aver messo a segno un altro dei loro piccoli furti al supermercato, Osamu (Lily Franky) e il piccolo Shota (Jyo Kairi) fanno il loro ritorno a casa. Durante il tragitto si imbattono in Juri (Miyu Sasaki), una bambina che ha tutta l’aria di essere stata abbandonata dai genitori. I due la soccorrono portandosela nella loro cosa, un umile dimora costruita alla meglio situata alla periferia di Tokyo. Qui li aspettano Nobuyo (Sakura Ando), una donna che si porta alle spalle un matrimonio difficile e che lavora come stiratrice in una lavanderia, l’anziana nonna Atsue (Kirin Kiki), sempre prodiga di saggi consigli per chiunque, e Aki (Mayu Matsuoka), una giovane ragazza che si guadagna da vivere esibendosi come spogliarellista in una web chat erotica. Tutti insieme formano una famiglia alquanto atipica, uniti dalla reciproca accoglienza e dalla necessità di aver bisogno l’uno nell’altro. 

 

Jyo Kairi, Sasaki Miyu, Kiki Kilin, Ando Sakura, Lily Franky

Un affare di famiglia (2018): Jyo Kairi, Sasaki Miyu, Kiki Kilin, Ando Sakura, Lily Franky

 

Hirokazu Kooreda ha fatto diversi film incentrati sulle relazioni familiari, principalmente catturate nella loro dimensione domestica e quasi sempre alimentate dal rapporto “asimmetrico” tra figli e genitori. Con i primi costretti a crescere più in fretta del previsto a causa delle evidenti deficienze genitoriali, e i secondi incapaci di assumere comportamenti responsabili compatibili con la loro età il loro ruolo. Non sfugge a questa trama poetica “Un affare di famiglia”, un film che dietro la calma candida e attraverso una messinscena caratterizzata dal tocco lieve di una regia onnicomprensiva, fa emergere delle domande sull’essenza della famiglia capaci di smuovere dalle fondamenta un’intera architettura sociale.

Cos’è una famiglia ? Un’istituzione socialmente riconosciuta che si fonda principalmente sul vincolo di sangue, o un gruppo di persone che si accettano vicendevolmente senza condizioni di sorta ? Un’ entità formale che una volta riconosciuto il legame filiale che tiene uniti ognuno può fare anche a meno di interrogarsi su come questo legame affettivo si sviluppa, o un gruppo coeso che di fatto si tiene unito attraverso la reciproca e volontaria accoglienza ?  Famiglia è quella cosa dove l’amore è dato per scontato anche se la disgregazione degli affetti ne rende improduttivi gli effetti, o quella in cui l’amore nasce dalla libera valorizzazione delle relazioni ? È meglio l’atteggiamento familista per cui si è famiglia indipendentemente dalla qualità dei sentimenti che vi albergano, o lo spirito di gruppo che indirizza i sentimenti della famiglia all’incrocio dei reciproci bisogni ? 

Hirokazu Kooreda non nega certo che famiglia sia quella cosa che nasce dalla decisione di un uomo e di una donna di stare insieme e che insieme decidono di mettere al mondo dei figli. Ma sembra propendere per un’accezione più ampia e più piena dell’idea di famiglia, più vicina alle esigenze dello spirito che ai protocolli sociali. Più intenta a considerarla come un luogo dove si dà e si riceve amore in egual misura, dove tutti si diventa partecipi di uno stesso disagio e dove tutti insieme si cerca di superarlo. Il luogo dove il senso dell’accoglienza è avvertito come una cosa vitale da chi ha conosciuto il sapore amaro dell’abbandono. Il regista nipponico si intrufola nella questione che lui stesso ha posto con garbata discrezione, lasciando che il grosso del lavoro venga fatto dalla macchina da presa. L’impressione è che Kooreda sembra voler creare con lo spettatore un rapporto di spontanea interazione, offrendogli la possibilità di maturare dei diversi punti di vista riguardo lo stile di vita della famiglia a seconda delle prospettive adottate. La prima è quella del regista stesso, che descrive dall’interno i caratteri multiformi di questa famiglia atipica, facendo emergere l’attitudine di ognuno dei componenti di preferire la precarietà economica e filiale alla precarizzazione conclamata degli affetti. I personaggi di Kooreda vivono di espedienti per poter sopravvivere, rubano per non rimanere spogli del necessario, si isolano dal mondo esterno perché non sono in regola con l’ordine costituito, raccontano bugie per non essere sopraffatti dalle amare verità, raccolgono viandanti perché ognuno ha conosciuto il peso dell’abbandono. La loro felicità deriva dalla complicità che li tiene uniti, ad ognuno basta questo per certificare la propria presenza nel mondo. La seconda prospettiva è quella offerta da chi vede dall’esterno gli affari della famiglia, elaborata da chi si limita alla sola descrizione dei fatti, offrendogli una luce diversa tesa più a spettacolarizzarli per eccesso di moralismo che ad approfondirli per mancanza di volontà. Vengono ribaltati il senso delle parole e la natura stessa dello stare insieme della famiglia, denudata all’istante della sua funzione protettrice e della sua intera carica sentimentale. Così, quelli che sembravano degl’innocui atti di sabotaggio sociale, fatti per corrispondere ad una disordinata idea di giustizia riparatrice, diventano delle pericolose azioni antisociali, le colpe commesse in passato assumono le vesti di mostruosità indicibili, l’accoglienza fatta in maniera del tutto istintiva si trasforma in rapimento a scopo di lucro, la convivenza solidale si tramuta in promiscuità interessata. Osamu e Nobuyo diventano due mostri da lanciare in pasto al pubblico dileggio, l’alibi permanente che consente di non analizzare come si dovrebbe la più generale indifferenza sociale praticata ai danni dei più deboli e indifesi. La terza prospettiva è quella dei due bambini posta al momento in cui ritornano al punto di partenza : Shota a non avere dei genitori riconosciuti e ad aspettare una famiglia che lo accolga con se, Juri insieme a dei genitori distratti che non si prendono troppa cura di lei. Anche se si sono trovati ad essere i protagonisti involontari di una storia dai contenuti controversi di cui non possono definire le esatte forme, i loro occhi non mentono. E sono occhi che provano nostalgia per un tempo in cui c’era sempre qualcuno pronto ad ascoltarli, a prendersi cura di loro, in cui ci si sentiva accolti e resi partecipi dello spirito di gruppo della famiglia. Un tempo povero di soddisfazioni ma ricco di affetti, magro di aspettative ma pieno di attenzioni sincere. È attraverso loro che Hirokazu Kooreda pone lo spinoso conflitto tra legge sociale e legge morale, tra la famiglia naturale che non si sceglie e quella che può scaturire dalla scelta. Una questione che Kooreda non risolve affatto e che mostra anche di non voler risolvere, perché lui è interessato a mostrarci il volto autentico dei suoi personaggi, il loro spessore umano e caratteriale, la loro inadeguatezza esistenziale. Kooreda ci porta a vedere da un interno domestico la storia di una famiglia, poi ce la fa raccontare da chi, quella storia, ha solo l’interesse di volerla rappresentare e giudicare. In modo che noi tutti finissimo per adottare il punto di vista dei due bambini e quindi concludere con ciò che la loro triste esistenza suggerisce al linguaggio degli propri occhi : che una famiglia può anche prescindere dal vincolo di sangue, ma non potrà mai fare a meno dell’amore tra i suoi congiunti. Grande film, di lucida e misurata compostezza.       

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