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Un'estate d'amore

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un'estate d'amore

di orsodelceresio
6 stelle

L'effimeratezza dell'amore, le domande irrisolte sul destino, sul significato di certi eventi che spezzano le nostre speranze e la nostra vita. Un film intenso e complesso ancorché di un Bergman prima maniera. Con un finale aperto e positivo.

"L'amore? E' l'unica energia vitale". Ma l'amore, specie in Bergman, può durare solo il breve spazio di una stagione. La sua durata può coincidere con quella dell'estate, dell'estate svedese: breve, tiepida, luminosa fino a tarda sera.

Un'estate d'amore è del 1951, non considerando Crisi, si tratta del nono film diretto dal grande maestro svedese. Il titolo originale, Sommarlek, in svedese significa "gioco d'estate" e, in un certo senso, proprio di un gioco si tratta, "uno di quei tanti che fa la vita" (F. Guccini). Il destino (?) spietato che arriva improvviso a spezzare un sogno, a distruggere una vita, anzi due.

La ballerina Marie (Maj-Britt Nilsson) un giorno riceve un misterioso plico all'interno del quale trova il diario di Henrik (Birger Malmsten), il fidanzato scomparso tragicamente in seguito a un incidente tredici anni prima. Marie scopre che il diario le è stato inviato dall'anziano zio Erland (Georg Funkquist), col quale aveva avuto una squallida relazione dopo la morte di Henrik.

Marie, dopo aver letto il diario, decide di recarsi nello chalet dove aveva vissuto i giorni magici di quell'estate di tanti anni prima con Henrik. In questo modo, ella rivive quella stagione meravigliosa e irripetibile: il sole, la giovinezza, il mare, il reciproco desiderio di amarsi e di sognare un futuro insieme. Tutto questo, purtoppo, è stato brutalmente e improvvisamente spezzato da un terribile e mortale incidente: Henrik si è tuffato in un punto dove non avrebbe dovuto, pagando con la vita.

Marie, disperata, si butta totalmente nella sua attività artistica, cercando in questa una consolazione e un rimedio al dolore che la distrugge. Il vecchio zio Erland prova ad approfittare della sua debolezza per realizzare il suo sogno di avere con lei una relazione. Egli asseconda il desiderio di Marie di protezione, di difesa: "Nella vita si può fare solo una cosa: difenderci, proteggerci, alzando intorno a noi un muro che ci isola".

Marie in un primo tempo accetta, creando una barriera intorno a sé che, in breve, si trasforma in una prigione. Qui ella si sente intrappolata, capisce che non può vivere così, che non è giusto buttare in questo modo la propria vita e dunque si decide ad accettare le avances di David (Alf Kjellin), un giornalista sinceramente innamorato di lei. Gli consegna il diario dicendogli che, se dopo averlo letto proverà ancora per lei gli stessi sentimenti, allora sarà disposta ad amarlo. Il finale è dunque aperto alla speranza, cosa piuttosto inaspettata.

Il film, ancorché opera giovanile di Bergman, appare più complesso, dal punto di vista delle tematiche affrontate, rispetto al posteriore Monica e il desiderio, pur avendo, nei confronti di quest'opera, più di una analogia.

L'effimeratezza dell'amore è qui presente, ma le domande che Marie, dopo la scomparsa di Henrik, si pone sono complesse e impegnative: l'inspiegabilità della morte (di quella morte), l'esistenza di un destino, il senso ultimo di tutto ciò che ci accade. Inpiegabili segni di un Dio che con Marie non è stato benevolo. Tutto sembra casuale e privo di significato. Qui vediamo gli echi della cultura protestante e luterana della quale è impreganata la Svezia e che ha accompagnato Bergman, figlio di un pastore, fin dalla sua prima infanzia.

Solo un primitivo istinto di sopravvivenza salverà, alla fine, Marie da una disperazione senza fine: il desiderio di rinascere, di ricominciare ad amare le offrirà forse l'unica via di scampo: "Vorrei piangere, disperdere con le lacrime la mia vacuità, cancellare questo periodo di tempo inutile. Se mi interrogo a fondo, scopro quasi che sono felice". Queste le parole di Marie dopo essersi tolta dal viso il trucco, metafora dell'eterna maschera teatrale di Bergman. Qui possiamo senza dubbio trovare il tema della rappresentazione, della finzione, della recitazione come rifugio e surrogato della vita vera.

Sono molti i temi contenuti in nuce in quest'opera e che poi ritroveremo nei film e nei capolavori della maturità del grande maestro svedese. Durante l'idillio tra Marie e Henrik appare anche un primo "posto delle fragole", un luogo magico nel quale la fanciulla conduce il suo innamorato, sorta di ideale paradiso dell'Eden, luogo della dolcezza e della felicità.

Bellissima la fotografia in bianco e nero di Gunnar Fischer e anche questa sarà una delle ossessioni di Bergman durante tutta la sua carriera artistica.

Un film intenso e bello, che sconta solo qualche simbolismo un po' troppo scoperto e qualche schematismo magari troppo evidente.   

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