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Mute

Regia di Duncan Jones vedi scheda film

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La recensione su Mute

di alan smithee
5 stelle

NETFLIX

Sia che ci si trovi nella Berlino futurista e ipertecnologica del 2050, che invece ci trovassimo nella attuale contemporaneità o piuttosto anche nel passato, Mute, titolo dell’ultima fatica Netflix a gran budget che si riferisce alla condizione fisica che caratterizza il “gigante buono” protagonista della sua dolorosa, financo romantica vicenda – è un film che ancora una volta riflette e poggia tutta la sua attenzione - divagante ed ondivaga tra luoghi e personaggi sin troppo bizzarri e senza un vero nesso fondamentale con il nucleo centrale della storia – sulla potenza dell’amore.

Il muto barista Leo, vittima di un incidente di barca che gli ha tranciato le corde vocali da bambino, vive del suo lavoro ripetitivo sullo sfondo di una metropoli colorata e articolata in strutture vertiginose e moderne che la rendono un agglomerato virtuosistico e suggestivo solo per chi la vive ed incrocia per la prima volta. La ragione di vita del gigante buono e mansueto, è la collega carina e dai capelli azzurri che da qualche tempo lo coadiuva nel locale, e che ricambia con dolcezza le miti attenzioni del giovane.

Il giorno in cui la donna misteriosamente scompare, per Leo il panico sopraggiunge a negargli ogni altro stimolo esistenziale. Nella sua ricerca ossessiva e forsennata, il ragazzo si imbatte in due loschi e strambi personaggi: due medici chirurghi dal losco passato e dall’incerto presente, in qualche modo legati alla sparizione della ragazza.

Due personaggi bizzarri, inquietanti e logorroici, uno violento e tutto scatti incontenibili, l’altro afflitto da vizi sessuali incontenibili, che si introducono in modo curioso e molesto nella vicenda, secondo un procedere prepotente consono con i reciproci personaggi, tanto da sembrare di rubare al barista il ruolo da protagonista.

Meglio non dilungarsi in ulteriori particolari, anche perché la vicenda, sin troppo lunga ed articolata, sarà in grado di fornirci spiegazioni adeguate, magari non particolarmente plausibili, ma almeno coerenti.

Fatto sta che il film utilizza l’ambientazione futurista, forse distopica, scenograficamente fantascientifica, senza un vero scopo preciso od essenziale che non sia quello di accordarsi con le mansioni di dubbia moralità esercitate dei due bizzarri balordi medici ex soldati, resi nella maniacalità corrotta e malata dei rispettivi ruoli, piuttosto bene da due bravi attori come Paul Rudd (qui in una delle sue migliori e più logorroiche prove, molto bravo a costruire un personaggio tutto scatti di ira e parlantina senza fine, in odore “tarantiniano” insomma) e il lynchano Justin Theroux dalla capigliatura bionda da paggio, piuttosto inquietante, certamente in linea col suo bieco, controverso personaggio dalle tendenze maniacali.

Due mattatori che, nonostante la bieca personalità dei rispettivi sinistri personaggi, finiscono inevitabilmente per rubare la scena al gigante Stellan Skarsgard, costretto ad abbandonare la parola per concentrarsi sugli umori di occhi spesso umidi e assai cerchiati.

Una sfida un po’ disordinata e campata per aria questo Mute, che si carica di molti generi senza imboccarne mai uno con convinzione, e lasciando lo spettatore magari non insoddisfatto, ma certo un po’ interdetto.

Per Duncan Jones, figlio 46enne di chi ben sappiamo, che dedica ai genitori questa sua ultima fatica a marchio Netflix, un passo sospeso dopo il gran bell’esordio di Moon, il buon proseguimento nel genere thriller con Source Code, e il passo falsissimo rappresentato dal fantasy a gran budget Warcraft.

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