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Amadeus

Regia di Milos Forman vedi scheda film

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La recensione su Amadeus

di AIDES
2 stelle

Saggio (s)fregio del dileggio.

(informa suite)


Ciò che si designa ai nostri giorni con il termine cultura non è che l’istruzione profana delle masse
.
(René Guénon)


Premessa


Amore e Musica, non più sacri, sono stati sacrati. Il cinema è blasfemo senza esserlo, cioè lo è per sua disgrazia.

Avremmo preferito si trattasse di una biografia sul noto presentatore tv, ad esempio (a quei tempi di certo sconosciuto al regista, almeno quanto il musicista, aggiungiamo). Invece si parlerebbe proprio di lui, cioè della Musica. Egli stesso mistero.

-deus e –art

Amadeus
è un film che non va preso sul serio. Non come qualcuno penserebbe, perché esso voglia ‘giocare’ con una storia di Mozart e Salieri, ma perché è un prodotto tutto del e nel passato (di maniere cinematografiche che stentano a riconoscersi cadaveri). Eppure a noi non va che passi tutto, e nonostante l’oblìo possa essere una difesa esercitata dalla memoria nei confronti del degrado, è giusto prenderlo di petto e dargli uno spintone come si deve giù per la decadente, ancorché mondana scalinata del cinema. Al contempo, soprattutto, non va preso sul serio riguardo la farcita aura -o meglio le arie- da ‘filmone’ che si è dato e continua a darsi, e voi continuate a dargli, secondo una discutibile e pressoché totale uniformità di opinioni.

No, la vera premessa è questa, altrimenti non si capirebbe l’intervento che seguirà: bisogna fare i conti con il fatto che non è possibile, nella cultura e nello spettacolo, alcuna innocenza.

Trecento anni fa era possibile vivere l’arte anche nella sciocchezza, e come sciocchezza. Oggi NO.


Leggerezza
.

Invece quello che si staglia in questi kilometri di pellicola è un impasto fatto di viziata leggerezza (simile, ma inversa alla presunta leggerezza mozartiana), e sciatta esuberanza, pateticume, ruffianeria, profanità.
Qui, alla corte di questo film, si è oltremodo sollazzati, qui si ha quel cinema che “encanta”, e che dà proprio zucchero alla vita media. Qui le musichelle mozartiane meno peperlizia e più gelateria del corso infarciscono la cremosa pasta del filmone per ogni gola, i servetti a inizio film si sleccazzano una pannosa coppa dopo che stacchi d’archi avevano affettato, con la pompa richiesta nelle grandi corti del gusto contemporaneo, le prime porzioni di montaggio dell’ingordo, ipercalorico racconto.

Per chi di tanto in tanto si porti fuori da questa nostra realtà, cioè da ciò che attualmente si attiene a una qualche sua nuova legittimità ‘ontologico’-postmoderna (o tardo-moderna, come cazzo vi pare), cioè la società circense dei balocchi e delle gambe corte (se non sono di femmina), la prima cosa da espellere è una protestuccia rivolta al Divertimento, un tempo sacro(santo), e salvifica delizia:
C’HAI SCASSAT’A MINCHIAAAAA!!!

La malattia del divertimento, l’ossessione del divertimento, la fabbrica del divertimento, la prostituzione del divertimento, la defecazione del divertimento, e mmerda simile. 

E poi, diciamolo, questo voler ridere senza un senso dell’umorismo. Senza candore, senza libertà. Suvvia..

Non solo per distrarsi, dimenticare gli affanni di questa quotidianità a cui si dà il proprio pigro contributo. Ma per arginare l’inettitudine alla vita senza esserne capaci, cioè senza sapere dove alberghi quella leggerezza.

La vita è sconcertante. Il cinema vi consola.

Allora dove voglio andare a parare? Forse al fatto che col gioco si giustifichi tutto? Che è il volto ‘per famiglie’ di un cancro culturale? O per l’uomo contemporaneo? Cioè un bambino in piena senilità??

Leggerezza, si diceva. Questo tipo di cinema non fa che battere forsennatamente sulla sua degenerazione. La manipolazione che di essa fa attualmente ogni agente dello spettacolo. La sua cancellazione. Per un illusionismo senza onestà dell’illusione, di  maghi altisonanti senza magia alcuna.  Per l’inganno di poterci liberare dalla
gravità.    

(La leggerezza non si acquista, si conquista).


Cinebarnum (I)

E lo stupore dove lo mettiamo? Non è solo questione di riso, ma di emozioooniii. E piacere. Emozioni servite sul vassoio. Appunto, l’incantamento facile. Il ‘cinema’ dell’attrazione non è mai tramontato signori, si è solo aggiornato, e con quanto zelo!!

Così basta una soluzione ad effetto, un po’ di archi qua e un bel costume là, un bell’imbroglio prima del cordoglio, dosi di retorica profuse, orditi e civetterie, altre grazie e finimenti …... Per una questione di pupille gustative ‘gentili’ e abituè.

Come ammalia il cinema, nemmeno il cioccolato.

Dunque, premesso che si è qui consapevoli dell’astuta tecnica di spostamento attuata da Forman sulla storta riga dei suoi predecessori (Mozart secondo un Salieri babbeo), diciamo che sono due, più precisamente, le modalità con cui il nostro film si giustifica e viene giustificato, e belle sventolanti sui pinnacoli del grande circo ludico-mediatico: il divertissement, e l’affabulazione del delegato dell’affabulatore ceco, il sedicente Salieri, appunto. L’uno è il punto di vista del pubblico e dei metteur en scène del global entertainment, affine appunto a quella pseudocultura della leggerezza e dell’evasione scontata cui si accennava, l’altra la complementazione agiografica tra il vero e il falso secondo un punto di vista, quello della presunta mediocrità, al servizio del primo, imbottita di grottesco e finalizzata a sovvertire qualsiasi dignità di tono e correttezza filologica per spalancare la bizzarria più ruffiana verso il (non)gusto del pubblico, o meglio, del tempo. Mai una leggenda campata in aria, un aneddoto letterario ha avuto una così precisa e predestinata conformazione ad ‘esca’: il Cinebarnum non poteva non approfittare di un’occasione tanto ghiotta, e strano che abbia atteso fino ai turgidi, imbecilli anni’80.

Ecco allora un film talmente kitsch da percorrere un’ intera ellisse e giungere nel campo di ciò che gusta proprio, come ogni vero disgusto! Questo è vero senso dell’umorismo!!!!!!!!!!!!

Eccessiva serietà gli avrebbe nociuto, ma la buffoneria calza a pennello sempre e a tutto, per poi tradire quando viene essa stessa tradita. Ma come non riconoscere la cristallina ironia del nostro Milos, il neoastuto edulcorante di Peter Shaffer! “Se Salieri non ha ucciso Mozart, di sicuro Puškin ha ucciso Salieri” si è detto. Ma Puškin faceva musica a sua volta! Mentre Forman, mezzo ‘kunderino’ del cinema, ha girato un altro Amadeus, un automonumento, l’Oscar che lo spettacolo dà a se stesso, e ha rigirato il coltello nella piaga, colla sua tavolozza di barocchismi e stupidaggini.


‘Pop estetizzzescion’ (Cinebarnum II)


Allora, di cosa si tratta? Di un ridicolo capolavoro? Un lussuoso polpettone? Un film pop diciamo (non a livello di art per carità …… più che altro di mass, non tanto/solo in senso di culture, ma di “linguaggio-market”. Pop non come abbreviazione di popular, ma come suo  frammento e deriva kitsch). Basta vedere la grottesca, caricaturale direzione d’orchestra. O i parrucconi di zucchero filato a metà tra un parodia fantasy e un  delirio di Fellini, le espressioni facciali da telefilm americano, lo sfoggio carnevalesco da rock-opera, i nomignoli dei protagonisti, gli antipasti musicali da spot e coreografia. Potevano trovarvi posto anche David Bowie col ciuffo viola, Ambrogio coi Ferrero Rocher, il Diavolo in persona, Beethoven in vestaglia coi capelli ritti, Giuseppe II a suonà’ Somewhere Over the Raimbow, Salieri sbronzo che va a mignotte, Mozart che piscia dal tetto sui passanti e il padre che lo sculaccia col frustino.

E del pop facciamo l’elogio e al pop decretiamo condanna. Il problema, lo diciamo per assurdo, è che il pop dilaga ma non eccede, a questo punto! Non deflagra. Non cancella quella patina da ‘grande cinema’, la quale, come se non bastasse, in troppi momenti imbelletta il canone serio (falso) di queste succose produzioni. Le volgarità e i ‘sopra le righe’ vengono infatti bilanciati da momenti e accortezze di maggior tenore (ad esempio, tra un Balanzone e una Colombina si affacciano a un certo punto ombre minacciose, si sfoggiano i lodatissimi esterni a fare atmosfera – grazie, ma fu Praga il capolavoro- o piombano i momenti drammatici tra un colpo di timpano e un tampone in fronte), tanto che Amadeus è al contempo un film ludico e serioso, dunque accorto nel non consegnarsi mai in modo genuinamente critico ai propri fuochi fatui e artifici, ma finendo, per chi la sapesse intravedere, nell’autoparodia involontaria, ad esempio nella recitazione più che nelle caratterizzazioni di partenza, nei dialoghi e nelle battute (tipo: «Naturalmente gli italiani! Gente musicalmente idiota!»), in certi siparietti, nel già citato incipit (si noterà che la versione in director's cut riesce a ridicolizzare ancor più il prodotto, sopr. per merito di un doppiaggio che aggiorna il tasso di insulsaggine). Oltre a ciò, è’ un film troppo finto, compiaciuto/ente e accademico per risultare ironico. E chi scrive ritiene che ironia e autoironia siano caratteri troppo importanti e decisivi per volersi piegare a vederli anche in tale circostanza. La vena ‘irriverente’ che zampilla qua e là durante il racconto non ha nulla di anarchico, ma tutto dell’artificio e del cliché. Vogliamo essere cattivi? Cioè giusti? Vedetevi qualcosa di Bene, Kitano o Altman per aver prova di come  (ci) si rovescia e deforma verso il riso. O, per rimanere in epoca, si torni a sbirciare la lezione ironica d’alta filosofia che ci ha dato il Barry Lyndon del signor Kubrick, un regista che sarà anche poco piacevole, ma a cui basta un minimo gesto per una feroce illuminazione. In Amadeus si ha, ahinoi, encefalogramma piatto. Una cartolina dal ‘700 per il pubblico turista dell’arte. E qui ci si vorrebbe proprio coprir di allori, in realtà!!! Amadeus vuol essere divertissement d’alta classe, un caso eccezionale, e far passare come naturale (e dovuta) l’altissima confezione in cui s’agghinda! Superare l’origine nell’apparato e nel circuito uniformato mediante una presunta unicità cinematografica. Anche per questo invece, per come riesce a sfuggire all’anonimato tipico di altri prodotti e a imporsi come film di personalità ma mai a superarsi, è proprio tale titolo a mio parere, forse il più lampante e clamoroso esempio di pseudo-arte cinematografica.

Un film che non avrebbe mai potuto accettare di ridursi ad autoparodia, perché vuol travisare solo leggermente, coi crismi dello scherzo, la sua apparecchiata grandezza.

(Ho esagerato con quei nobili e impegnativi raffronti? Ma come non stiamo parlando di MILOS FORMAN??? Quello ‘sul nido del cuculo’? E di Amadeus come del suo «capolavoro assoluto»?! Poi, se certo cinema va ‘giustificato’ perché attinente agli standard di quella ‘leggerezza’ di cui sopra (e magari lodato oltremodo), allora ditelo subito, che lo avete già messo sottovuoto. E non solo il cinema).


Rimane allora, una grande sarabanda romanzata in cui sfilano come in una parata a-bio-gra- ma proprio fica,  fra voluttuosi corpetti e lussuosi ornamenti, e bla bla do re mi sfavellati tra ghigni drogati e candide tettine, l’Allegro con brio della Sinfonia n. 25 KV 138, Eine kleine Nachtmusik, “Non più andrai farfallone amoroso”, “Regina della Notte”, “Pa-pa-gena!...Pa-pa-geno!”.....e altre eufraciche e stracucinate prelibatezze di ignobili sagre mediatiche. E narrando trionfi e tonfi e trame e intrighi, luoghi ameni e luoghi comuni tra sguazzi brillanti e interi blocchi di tavellonico sopore, si prosegue per tre ore fra scenette da rivista (ci sono tutti, il comico la soubrette e la spalla), trovate infantili e telefonate, dialoghi da fiction, caricature sfarfallanti, stravaganze e parrucconi, levrieri che abbaiano, smorfie e gesticolame da premio oscar, tarantolati e cordofoni acrobatismi, e calligrafia miniaturizzante d’alta scuola. Ambientazioni sgargianti come incartamenti di cioccolatini austriaci, l’allegretto narrativo a ordire scenette puntuali come “capezzoli di venere” (quel «sentiamo» dell’imperatore ..), prime d’opera commentate da bavosa telecronaca di un ‘mediocre’. Alla fine, appunto, il finale Requiem (ma va!) e sua esclusiva composizione tra ti-ri-pi-mpi-mpà e controcornofagotti di terza sedicesima diesis a fare da picco drammatico della vicenda, con Mozart ormai ridotto a un incrocio fra Nosferatu e Lou Reed e Salieri a far lo scribetto mefistofele, e il funerale stringato sotto la pioggia (e te pareva) con quattro facce contrite (eppure, coi costumi a lutto più belli del reame....) perché si sa come venne fatto allora, guai a dare l’impresssione di una degna sepoltura! E l’epilogo addirittura imbarazzante: Abraham col truccaccio sempre più gonfio e pesante che sta lì lì per smocciolare (vai con l’autoparodia, un volto che sembra due persone allo stesso tempo, un virtuosismo!) finisce di gesticolare ma non di sparlare: prima di essere condotto al «cesso» si proclama il “campione e santo patrono dei mediocri” (..e vai..bella fine eh Antò?..) e lungo un corridoio dispensa assoluzioni a chi?….. ai poveri, “mediocri” sventurati del manicomio ………………………………..  Poi, a infiocchettare il tutto, come un iris acustico, da chissà dove rispunta ancora una volta l’imbecilla risatina del peggior Mozart mai visto (e sentito) negli ultimi due secoli. Orrendo.

(Perché nel medesimo istante non riecheggiava anche la bestemmia che SCHOPENHAUER avrà certamente tuonato dalla tomba???????? Eh, perché?)

La mediocrità, oltretutto, non è dei ‘non riusciti’, bensì di quelli riusciti troppo bene, delle ciambelle troppo uguali come Milos Forman.


«Ah, chi può scindere il sacro etere?»

Usciamo da questo film che sappiamo, non vorrebbe e non potrebbe mai essere altro da sé, e facciamo indirettamente (ovv.) un brevissimo cenno a al “silenzio”, che la pellicola in questione finisce non per evocare, ma per offendere, e in minima parte, comunque chiamare in causa (e certo, volgarmente, anche qualora possa ben dirsi: “si è persa una buona occasione per tacere”).

Inutile rivendicare la musa dunque, o un film su quell’artista che avesse, come meriterebbe, il tocco ineffabile e struggente di un Concerto per pianoforte n.23 KV 488, ad esempio, o l’altezza di guglie abissali di una Maurerische Trauermusik KV 477. O di altri, troppo lontani ‘K’. Lo spirito della musica insomma. Che avrebbe dovuto necessariamente essere opera di un irregolare (tipo un Welles) e non di ossequiosi animatori del week-end serale e dell’home-video.

Di Mozart nulla che si dica, o possa dirsi, a un pubblico odierno. Ma il cinema ne sarebbe mai capace? Capace di tanta grazia?

Quasi sempre la musica nel cinema non è la musica del cinema, ahinoi. Quest’ultima, a dire il vero, è una musica ‘difficile’. Tanto non sfoggia significati quella prima arte, tanto apre le gambe a facili decodifiche la seconda. Tanto si fa aggraziata e oscuro arabesco l’una, tanto ripresenta e si rappresenta l’altra. La musica è (una cresta sottile tra)     
                                          **

il cinema un oasi di miraggi e ristoro tra il sogno e lo spettacolo. Un sogno degradato nell’“ipertrofia della rappresentazione”.
Anzi, per chi non è spettatore, ma compartecipe delle cose umane (e oltre), questo film racchiude in nuce proprio tutta la volgarità del cinema dinnanzi alla musica, o meglio, dinnanzi alla sua assenza (e presunta citazione).

Se non fosse stato soltanto un prodotto per folle, ma un film appena folle, a quest’ora diremmo ben altro. Invece il delirio di questa pellicola è condotto sotto l’attentissima egida dell’istituzione cinematografica (Metz). Cioè del suo bisogno e talento di creare “oggetti buoni”, funzionali a quel “piacere filmico” su cui essa stessa si fonda e storicizza, e con cui indirizza il pubblico all’”interiorizzazione” dei suoi caratteri costitutivi, dei suoi stereotipi e canoni dominanti. All’abitudine, al pigro vedere, al vacuo parlare, al non ascoltare. Abitudine come deterioramento di habitus, solito, esteriore rituale, arte pro forma.
Amadeus si inscrive con tutto il peso della sua industria, del suo arsenale sensoriale e delle sue statuette nell’attuale, colossale meccanismo e ideologia di rimozione, soprattutto estetica, del sacro.
E’ il Cinema* al cubo, e ispirandoci a Ortega y Gasset riguardo alla devitalizzazione e marginalizzazione dell’arte nell’esperienza contemporanea, uno dei tanti segni di quella regressione dell’Occidente ad uno stato puerile, o ancora, di quell’”edonismo di massa” che è il vero volto (punto d’arrivo? No, apice riverso) della nostra civiltà.

E’ proprio questo trono fatto della più morbida stoffa dello spettacolo che rende il cinema un sovrano grasso e impigrito, passivo e compiacente verso il tempo dei sogni a buon mercato.

Ciò che conta, per esso, è la (auto)conservazione, che è la stessa di ogni potere, tramite le tecniche solite del compiacimento, del sensazionalismo/novità e allo stesso tempo, dell’aderenza a precisi modelli riconosciuti dal pubblico che garantiscano l’orgia passiva delle sue proliferazioni. In Amadeus ritroviamo la medesima scaltrezza amplificata oltremisura. Il ritorno di mille stereotipi, e su tutti quell’opposizione vizio/virtù già topos della letteratura popolare anticipatrice del grande consumo di massa della cultura. Altri discorsi più o meno seri, tematiche o trastulli da cineforum, sono tutto fumo. Amadeus in un cineforum sarebbe utilissimo solo per una lucida diagnosi sullo stato di un’arte (o di un mezzo) e del suo contesto sociologico.
PER DIRE COME NON SI DEVE FARE PIÙ CINEMA.


Qui, come ovunque, si percepisce l’estraneità dei ricchi artigiani e dello ‘spettatore’ contemporaneo a quella vita che è sullo stesso piano estetico dell’arte, e che la musica ha qui il difetto di richiamare senza riuscirvi, impedita dal cinema.  

§ Ma usciamo dal cinema. Entriamo nelle cose, vediamo dall’esterno. Ascoltiamo altro.§


Congedo

Tuttavia Amadeus parla effettivamente di ciò di cui tutti hanno detto, secondo un altro punto di vista: il genio è in tutta la musica di Mozart che in questo film, per fortuna, non ci fanno ascoltare (a sua insaputa, il film ha una certa e contraddittoria discrezione).
Nel silenzio dunque, a cui la musica aderisce più di ogni altra cosa, in modo inversamente proporzionale al cinema. Ciò è a questo teatrino messo su con scintillante istrionismo in costume, e costume contemporaneo, che quel silenzio fa dimenticare con cremosi strepitii.
La mediocrità è quella di un film pomposo e di un regista incensati come sono oggi tutti gli einauditi allievi delle volgari gesta. Di un tempo rozzo e pasticcione che ha bisogno di aver tutto a portata di mano, il sublime come il riso nel carrello delle banalità, e che ridacchia come Wolfy, e dormicchia come Stanzy. Non è cosa da poco, il genio della mediocrità.
Ma il pop  ha vita breve, come un’effimera meteora, e nel meno peggiore dei casi, finisce per farci rimpiangere quel silenzio.



Promemoria


*
Cinema, scritto con la ‘C’ (maiuscola) identifica l’istituzione, con la ‘c’ (minuscola) ciò che a quella sfugge continuamente.

**: vattela a pesca.

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