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Quel che resta del giorno

Regia di James Ivory vedi scheda film

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La recensione su Quel che resta del giorno

di lorenzodg
10 stelle

Quel che resta del giorno” (The Remains of the Day, 1993) è il  ventunesimo film del regista californiano.
   James Ivory sembra disegnare, ogni volta, tutte le forme e i visi che riprende; li contorna nel modo giusto e suadente e accarezza le luci, di qualsiasi ora, per farle posare sugli oggetti, gli sguardi, le stanze, i giardini, i sentieri, i rami, i mobili, le voci e le chimere strade di una vita rinchiusa. Stasi e fissità connaturata all’inquadratura che nasconde, in modo palpabile e poco adatta ai moti iperdinamici, viltà e stoltezza della vita, sarcasmo e piacimento, routine e passione inespressa, trattenimenti e implosioni di animi cadenti o per meglio dire rinvigoriti da tepori di un sole autunnale o adombrati da un esaustivo calore estivo. Modi e contrappunti ricamati in un acerbo inglorioso dove la sconfitta è connaturata nell’uomo che si immerge nella fotografia dei tempi del regista e dove ogni vittoria di famiglia (in discorsi salaci e inverecondi, saggi e inutili) resta lì appesa ad un filo puparo come ogni mesto finale di un teatro redivivo popolano (e popolato) di morti viventi. E con questo osannare la figura umana nei tratteggi fini e sagaci, l’immaginario che arriva allo sguardo (a ripensare per intero il tutto) è sfuggente, fumoso, annebbiato e tristemente vacuo. Come chiosa a un barlume di luce restante il vivere ardimentoso, compiaciuto e servizievole (fino all’annullamento di se stesso e di ciò che non vuole rappresentare), il maggiordomo Stevens (Anthony Hopkins) rappresenta un’aplomb rigurgito fino a quando l’intorno se ne avvede, ne chiama partecipe, s’immedesima nel gioco, chiama a sé attenzione e ricolma di lavoro ogni pausa di riflessione. Un tirarsi indietro sempre e comunque alimentano manifesti anneriti e insipienti spazi compressi e sbuffanti: quello che si vuole è ciò che si fa senza avere opinioni, discussioni, discernimenti e, quasi con vergogna, mesti momenti da ricordare. Una chiusura alacremente voluta, desiderata e forzata che portano dentro un animo-bambino da scoprire e da rigenerare ogni qualvolta un servizio dovuto diventa il dare senza chiedere e il nulla-rivevere. In una stagione che alimenta la discussione storica (a-posteriori) il maggiordomo di una borghesia inerme  si scusa (senza nulla dire) di non avere lingua per discorsi quanto mai perdenti (per lui) come se l’encefalo (di memoria presente) si rifà ad un vociare interiore quanto mai blasfemo in un sogno di ieri. L’Europa che ricolma di fuochi vivi è dentro il massacro infausto di un clamore suadente di spudorato uomo che disperante accumula conquiste di sconfitta atterrita mentre il mendicante lacerato pezzente rifà il verso ad una guerra mai doma di soldati morti. E mentre la tenuta di Darlington Hall ha attraversato la storia (dalla fine degli anni venti alla fine degli anni cinquanta) ecco che il servizio accondiscendente non fa sconti a nessuno e tantomeno all’arguto Stevens, tanto immerso nel lavoro quanto sperduto nella vita che s’insinua tra le mura della villa del suo lord, padrone del tempo e dei tempi di ciascuna stanza. Stevens se ne compiace e compiace se stesso con modi compiti, signorili, sobri, essenziali e con un tocco di classe in modo tale che risulti ogni piatto il primo e ciascun ‘signore’ l’unico. Encomiabile nel servizio, trattenuto nello stile e rigoroso nei gesti: un maggiordomo senza pause personali e momenti di vita vissuta. Fuori da ogni gioco, escluso di ogni interesse, restio ad approfondimenti: vile modo di non conoscersi e di adombrarsi con chimere sfuggite e maestrali che sollevano un assopito uomo. Resta il poco per accorgersi del nulla, resta quasi il superfluo per toccare il niente, resta un raggio per osservare la sera, resta una spiga per odorare il grano, resta una lacrima per piangersi dentro, resta un po’ di vita per sentire un soffio, resta un riso per cercare la bellezza, resta un sorso d’acqua per colmare la fine, resta un respiro per restare svegli, resta un barlume per una speranza avvilente. E’ quello che resta non si può neanche assaporare. La vita di Stevens è piena di passato.
   “E’ inutile piangere sul latte versato” dice il maggiordomo a miss Kenton (Emma Thompson), anche lei a servizio della villa, in un attimo di lucida tristezza e di chiacchiere da resoconto. Quelle frasi che disorientano la vita e vorrebbero fare da analisi del passato. Dove il presente è alla fine gramo di tutto e con un futuro di resto (quello che rimane da contare). Non puoi fartene una ragione (con i conti che tornano quasi mai). Il passo, il viso, le rughe, i tempi, il servizio, lo sguardo, i piatti, le bevute, la luce, l’ombra, le entrate, le uscite, il vestito, l’attillato, i suoni e i silenzi: tutto confluisce in un momento, un attimo, un raggio e un minuto di un giorno. Il maggiordomo Stevens non si scompone mai ma la sua interiorità è un subbuglio continuo. Tutto è soqquadro e il chiudere la tenda, come la finestra, indicano un gesto di vuoto indelebile. La ripresa che fugge dalla villa, con un allontanamento scorrevole, allunga la scena su tutto l’intorno e il verde (annerito) che ammanta il panorama e la tenuta Darlington Hall (ora, anzi al minuto per Stevens, per quel che conta in altre mani) e tutto il passato (affossato nella memoria di un servizio trentennale).
   Il maggiordomo Stevens (Anthony Hopkins) è il capo del servizio di lord Darlington (James Fox): sembra privo di coinvolgimenti emotivi e tutto votato al lavoro per il suo padrone. Tutte le giornate procedono con maniacale perfezione senza che l’uno interferiscono sull’altro. Mai sovrapposizioni e ricerche di comprensione tra i due. L’arrivo di miss Kenton (Emma Thompson), nuova governante, non modifica affatto il tran tran giornaliero e ogni ‘sofisticato’ modo servizievole. I due (nonostante tutto) si integrano insieme nel modo e nel lavoro raffinato e di precisione (senza nessuna pausa). La morte del padre di Stevens (Peter Vaughan), anche lui maggiordomo in pensione ed aiutante, non dà la sensazione dello spostamento di un millimetro della vita del figlio. Il trascorrere del tempo  è  ‘regolare’, ‘preciso’ e ‘rituale’  nelle ritualità mai modificate e allontanate dalla casa. Il senso del dovere è tale che durante una cenda di illustrissimi personaggi, il maggiordomo pensa assolutamente al suo servizio che dare conforto al padre sul letto di morte. L’avvicinamento della governante a Stevens non viene colto dal maggiordomo che appare distante e impermeabile ad ogni sentimento. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale a casa lord Darlington (con simpatie filotedesche) avvengono parecchi incontri politici tra cui un incontro fra il primo ministro inglese e l’ambasciatore tedesco a Londra (per riappacificare un’Europa oramai diventata una ‘polveriera’ in attesa di un incendio). Finita la guerra al lord venne riservato un trattamento di ‘ostracismo’ per le sue tendenza politiche. Alla sua morte (fine anni cinquanta) lascia tutto a nessun erede o meglio la tenuta è acquistata dal ricchissimo americano Lewis (Christopher Reeve) che ancora si serve del maggiordomo Stevens e del suo preciso lavoro. Nel frattempo il maggiordomo aveva incontrato la governante (che aveva lasciato la villa sposandosi) vicino alla sua nuova dimora. Un colloquio di una malinconia estrema che non modifica l’atteggiamento di lui verso lei (si era separata nel frattempo). Tutto con formalità composta e null’altro. La vita di Stevens è lì a raccontarsi (in un unico e lungo passato) con una notte che è lì prossima. Ciò che non è stato è un atto finale di una finestra chiusa alla luce e di un’inquadratura alta della tenuta fissa nel tempo.
  
Anthony Hopkins raggiunge (in questo film) un’immedesimazione al personaggio (sembra confondersi l’attore con la maschera) come mai gli è successo. Una linearità, un tratteggio e un movimento del corpo veramente stupefacenti. Encomiabile la postura e l’entrata nel vestito da servizio alla pellicola e al contesto narrativo. L’attore riesce benissimo a non ‘confondere’ l’altra sua maschera (Hannibal Lecter de “Il silenzio degli innocenti” del 1991), anche se nella sua filmografia successiva tende ad avere tic e modi già visti (e prigioniero di se stesso).    Emma Thompson è di una bravura inusitata: flemmatica, assorta, coinvolgente e assolutamente dentro al personaggio della governante. L’incontro finale Miss Kenton-Stevens è una lezione di cinema per molti: messa in scena, sguardi, pause e recitazione. James Fox (Lord), attore di vaglia e con una filmografia di rispetto, merita un applauso sincero mentre Christopher Reeve, nella parte del nuovo proprietario della tenuta, riesce ad essere credibile (nonostante su questo attore l’ombra perenne di ‘Superman’ alla fine gli ha nociuto) e a tenere bene la scena. Da ricordare il personaggio-giornalista di Hugh Grant (che aveva già lavorato con Polanski e avrà successo a breve con ‘Quattro matrimoni e un funerale’ che uscirà l’anno dopo). Tutti il cast ha una valenza importante e una giusta collocazione (come sempre succede nelle pellicole di James Ivory).
   D’importanza capitale il soggetto del film tratto dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro (giapponese naturalizzato britannico) che riesce a coinvolgere totalmente il regista statunitense (inglese nei modi). Tony Pierce-Roberts ci mostra una fotografia di grande intensità e asciutta. Aveva lavorato con Ivory in molti suoi films (“Camera con vista”, “Casa Howard”, “Surviving Picasso” e altri) raggiungendo sempre un lavoro di grande livello. Richard Robbins ha composto la colonna sonora (anche lui del gruppo fidato del regista).
   Impeccabile, sontuosa e sentita la regia di James Ivory che raggiunge un valore assoluto (un connubio quasi incantevole tra inquadratura e messa in scena).
   Il film ottenne otto candidature all’Oscar –tra cui miglior film, regia, attore protagonista, fotografia, misica- (nel 1994) senza vincere una statuetta.
   Voto: 10.

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