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Venezia 2011 - Da Controcampo: le madri infanticide di Maternity Blues. Anteprima scena
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UPDATE 29/07/2011 23:30

Dopo due giorni di improvvisa attenzione, è arrivato il momento di spiegarvi quello che è successo e invitarvi a una discussione che vedrà coinvolti il regista Fabrizio Cattani e l'attrice Marina Pennafina. Il tema della discussione sarà ovviamente il film Maternity Blues, che sarà presentato nella sezione Controcampo al prossimo Festival del Cinema di Venezia, e l'idea di maternità che viene rappresentata al suo interno. Argomento forte, date un'occhiata alle immagini del video postato e date vita a questo "simposio" al momento solo "epistolare", di cui sarò tramite.

 

Nessuna strategia o tattica dietro, solo coincidenze che sono cominciate nel momento in cui le strade del web hanno portato l'attrice Andrea Osvart proprio su Cinerepublic. Niente agganci, niente soffiate, solo casualità e tanta disponibilità da parte di Cattani, che sceglierà proprio noi per lanciare in contemporanea una videointervista realizzata sul set, con riflessioni, scene e backstage mai visti prima.

 

A voi la palla. So che ne siete all'altezza, come dimostrano i precedenti con Roberta Torre (*) e Eugenio Cappuccio (*).

 

 

 

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Quando sono stati annunciati i titoli della sezione Controcampo Italiano del prossimo Festival di Venezia il titolo che maggiormente mi ha colpito è stato sicuramente Maternity Blues, di Fabrizio Cattani.

 

I motivi che mi hanno lasciato di stucco sono due. Il primo, di carattere quasi "logistico": un piccolo film indipendente che va a competere con i colossi della distribuzione italiana, senza puntare su grandi nomi di richiamo, ad eccezione di quello di Andrea Osvart, sempre più lanciata verso il riconoscimento delle sue qualità interpretative. La seconda ragione è legata invece alla trama. Nel leggerla, sono sobbalzato sulla scrivania: per la prima volta, un film italiano affronta un tema quasi tabù per un Paese che ha quasi santificato la figura della "mamma": la depressione post partum e l'infanticidio. E non lo fa pescando nel morboso o nel torbido: l'orribile gesto si è mai concluso, quello che ne vedremo noi sono le conseguenze. Quattro donne rinchiuse in un ospedale psichiatrico (termine elegante per indicare il moderno "manicomio", a dispetto dei giardini intorno molto più curati di quelli di prima) provano a combattere il senso di colpa. Superarlo? Forse. Finire in una spirale ancora maggiore? Forse. 

 

I toni sono molto drammatici, l'argomento solleverà quasi certamente miriadi di polemiche, già me li vedo i censori,i vaticanisti e le Anna Pettinelli di turno. A me, però, faceva piacere augurare il meglio alla pellicola. E sapete perché? Perché finalmente si concentra lo sguardo sulla depressione... tema che in questi giorni è sulla bocca di tutti a causa della prematura scomparsa della cantante Amy Winehouse... tema di cui tutti parlano ma che nessuno riesce a pieno a spiegare... argomento tabù, come se fosse la peste del nuovo millennio. Del resto, la depressione rimane invisibile, non ti riempie di macchie o brufoli, non puzza e non lascia cicatrici visibili. Macera dentro, quello sì, ma nessuno è capace di intuire le differenze tra il prima e il dopo. Si assiste a processi sommari, tutti pubblici ministeri e nessun avvocato difensore...

 

Ecco, tutti abbiamo sicuramente condannato le autrici di simili gesti quando ce le siamo ritrovate spiaccicate sui giornali o raccontate da un Quarto grado qualsiasi... ma nessuno ha mai pensato a cosa accadeva tra le sbarre di un carcere o tra i labirinti della sola mente. Quanto pesano i grammi dell'anima? Solo 21 o quintali?

 

Forse a me queste quattro donne suscitano tenerezza: originano una vita ma al contempo ne uccidono due. Non sono la persona adatta a parlare di maternità né tantomeno a disquisire di parti, amori filiari e personalità messe da parte per concentrarsi su una nuova vita, che ti appartiene fisicamente ma non ancora psicologicamente. Chissà se qualcuno di voi mi aiuta a capire... chissà se qualcuna di voi trova il coraggio o la voglia di raccontarci cosa sia o cosa si provi dopo la gioia iniziale... chissà...

 

Sproloqui notturni da insonnia? Forse... Tanto ho l'abitudine di non rileggermi, sono distratto per natura e un solo correttore di bozze o di idee non mi basterebbe... Forse non si capisce dove voglia andare a parare... Non lo so neanch'io... 

 

Intanto, ecco a voi una scena tratta dal film: un minuto e mezzo... 

 

 

 

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Maternity Blues (2011)

di Fabrizio Cattani con Andrea Osvart, Monica Barladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina, Daniele Pecci, Pascal Zullino, Elodie Treccani, Lia Tanzi

 

NOTE DI PRODUZIONE DEL FILM

In questo dramma si vuole esprimere una profonda pietas per donne che la depressione – malattia mentale, sofferenza – ha reso doppiamente assassine («Quando uccidi tuo figlio, è te stessa che fai fuori in quel momento»). Ma la sceneggiatura nasce anche come riflessione sull’istinto materno, e come accusa contro una società che ha sempre bisogno di creare mostri e giudicare un malessere che non andrebbe liquidato con leggerezza. 
Calandosi nelle vite dolorose o estremamente grigie delle protagoniste non si può non sentire per loro pietà. Una pietà laica quella che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si inizia a cercare di comprendere. In effetti, nella sceneggiatura non c'è traccia di giudizio nei confronti delle protagoniste, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C'è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dal luogo dove stanno scontando la pena e contemporaneamente, cercando di «curarsi» con il supporto di psichiatri. 

Ci è sembrato anche estremamente interessante sottolineare come Rina, Vincenza, Eloisa e Clara vivano come “sospese” in un limbo dalle pareti sottili che le separa, ma al tempo stesso le protegge dal mondo reale. Un limbo difficile da varcare anche per via di quei pregiudizi e quella superficialità a cui i media ci hanno abituato.
Conoscere la storia pregressa delle infanticide, aiuta a capire come l'istinto materno non sia obbligatorio, come la maternità sia qualcosa di estremamente complesso e come la depressione maggiore o post partum, se non compresa, possa sfociare anche nell' assassinio del proprio figlio, che, poi, altro non è che un suicidio.

Gli psichiatri parlano spesso di "depressione post partum". Ma questa diagnosi rivela solo un sintomo non di una malattia, ma della condizione della maternità, di ogni maternità, dove l'amore per il figlio non è mai disgiunto dall'odio per il figlio, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, del suo tempo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall'amore per il figlio. I membri della famiglia e i vicini di casa hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, come spesso succede con gli abusi sessuali, la violenza, l'alcolismo, la follia o la semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si percepisce. Siamo al diniego che è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos'altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. 

Non nascondiamoci l'ambivalenza dell'amore e dell'odio che sempre accompagna la condizione della maternità. Non ci sarebbero tanti disperati nella vita se tutti, da bambini, fossero stati davvero amati e solo amati. Ma non nascondiamoci neppure dietro il diniego di fronte a ciò che accade. A colpi di negazione non c'è evoluzione e neppure speranza per chi ha drammaticamente deragliato dal più comune dei sentimenti umani.

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