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Una donna indipendente: Marta Mészáros
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Il DIARI di Marta Mészáros

Ungheria, anni Ottanta

__________________________

“Una donna indipendente – una donna che si trova in una situazione in cui deve prendere una decisione da sola – è il personaggio centrale di ogni film che ho fatto finora”

 (Márta Mészáros, Hungarofilm Bulletin, 1976 n. 2)

Raccontare una generazione che ha vissuto anni cruciali nella storia d’Europa del secondo dopoguerra, mettere a fuoco quella parte dello scacchiere orientale dove s’incrociarono utopie e fallimenti, illusioni e delusioni, in una convergenza di destini che intreccia la biografia individuale con lo sguardo sul sociale e il politico per una doppia focalizzazione, esterna e interna.

Farlo con uno sguardo di donna.

Questi i tre Diari di Marta Mészáros.

A cinquanta anni la regista, classe 1931, mette in fila pezzi di una vicenda individuale stratificata, complessa, non facile da ricomporre.

Si trattava di salvare il proprio mondo cercando di capire quello degli altri, cosa restava e perché.

Il padre, soprattutto, figura iconica che ha segnato anche la sua vita di adulta in una singolare convergenza con Jànos, l’uomo-amore, l’uomo-ideale che lotta, soffre, s’immola.

Finzione e documento mediano i livelli della rappresentazione, le esperienze passate formano, poi la vita diventa memoria cristallizzandosi nella realtà del racconto.

L'individuo e le sue emozioni si conciliano così con la politica, l’arte, la grande Storia.

I Diari di Marta Mészáros sono storia di formazione, la loro unicità è aver ritratto una figura di donna che afferma la propria identità in un tempo in cui farlo era impresa titanica.

Juli Kovacs, alter ego di Marta, è una donna libera, intatta, vittoriosa, esce indenne da condizionamenti familiari e ambientali, contro la sua piccola figura, infagottata in severi abiti da “compagna” anni ’50, la Storia si muove a ondate cercando di ricacciarla indietro, grandi cose accadono in quei decenni e la sua voce che dice “non ci sto” risuona sicura.

Juli vola alto sopra il suo tempo e indica la strada, la circondano uomini e donne di ogni tipo, con molti è amichevole, da molti sa prendere le distanze con classe, conosce le parole per farlo, non ne servono molte.

Juli non ha una vita protetta, ha solo la sua forza e l’orgoglio che la riempie quando afferma la sua scelta irrinunciabile: diventare regista.

In Appendice note biografiche e filmografia parziale

1

Diary for my children

(Naplo Gyermekeimnek, Ungheria 1982, durata 106’)

 Gran Premio della Giuria a Cannes, il primo Diario racconta infanzia e adolescenza di Juli al tempo della creazione di miti e ricordi.

Budapest 1947. Un aereo proveniente da Mosca porta in Ungheria un gruppo di persone aderenti al partito comunista, rifugiati in Urss per sfuggire alle persecuzioni del dopoguerra.

Magda (Anna Polony), convinta militante in ascesa all'interno del partito, colonnello dell'AVH, la polizia segreta di Stato, accoglie Juli, adolescente non malleabile, chiusa, non ostile ma neppure affabile.

La ragazza ha perso entrambi i genitori, ma rifiuta l'idea di essere adottata da Magda. Con lei i rapporti saranno conflittuali fin dall’inizio. La donna incarna lo stalinismo, ha gli stessi modi autoritari e decisionisti del “piccolo padre”, convinti entrambi di fare del bene al mondo intero, e benchè faccia molto per aiutare Juli non avrà mai per lei la comprensione di una madre.

Alla fine del primo film la ragazza si trasferirà lontano dalla casa della donna andando a vivere la sua vita, difficile, irta di ostacoli, ma sua.

Nel primo Diario appaiono i presagi del futuro filtrati da un velo di malinconia, il bianco e nero è il colore del ricordo.

Juli, Julia, Julika è una silenziosa figura assorta per cui Mészáros trova l’interprete perfetta in Zsuzsa Czinkoczi, eccezionale attrice di soli quindici anni, capace di essere bambina e poi donna, sguardo profondo, serio, vigile nei frequenti primi piani.

La madre è una presenza labile, pochi anni insieme poi la morte, forse per tifo, il ricordo è incerto, solo un fotogramma fulmineo nel terzo Diario, con lei che entra in ospedale e Juli bambina ferma sulle scale, sola, di spalle.

Un momento felice nel primo Diario, con la bambina in un campo di fiori, è quasi immediatamente avvolto da un’ombra  inquietante, i poliziotti della sicurezza dello Stato che portano via il padre.

László Kovacs, alias László Mészáros padre di Marta, era uno scultore affermato. Convinto che il comunismo fosse il paradiso dei popoli aveva trasferito la famiglia in Unione Sovietica fin dagli anni ‘30.

Nel quadro delle purghe staliniane fu arrestato nel ’38 e morì disperso nel ’45. Su di lui rarissime notizie, qualcuno lo incrociò in quegli anni di dittatura, repressione, tortura e poi non lo vide più.

Un arido burocrate seduto alla scrivania comunicherà anni dopo a Juli che il padre è stato “riabilitato” ma è morto. E dove è sepolto? Nessuno lo sa.

Laszlo appare a intermittenza nei tre Diari, in quegli squarci che la memoria apre a volte per un’associazione, un viso, un profumo, una “madeleine”.

Nella cava di marmo, un puntino fra pareti bianche altissime, o vicino al trespolo, un cencio copre la figura di creta plasmata, è Prodigal Son, scultura a cui Marta rende omaggio. Alle sue spalle i gendarmi che lo porteranno via.

Era facile, allora, bastava una parola di troppo. In Unione Sovietica, Ungheria, altrove.

Guerra mondiale, rivoluzioni, moti di piazza, guerre civili, normalizzazioni, tortura, lavori forzati, condanne a morte. 

Decidere per l’arte era impresa quasi disperata. Laszlo era scultore, Juli aveva addosso il fuoco del cinema, innanzitutto cinema documentario, sentiva che non c’era specchio migliore per raccontare l’indicibile.

Jànos (Jan Nowicki) entra  in scena ben presto, compagno comunista di Magda ma alimentato da idealità libertarie, occuperà il posto lasciato dal padre di Juli nel cuore della ragazza e sarà una delle figure centrali degli altri due diari.

Cosa direbbe tuo padre? O Jànos quando ritorneranno?” è la sua voce interiore quando le decisioni da prendere sono difficili e la solitudine insopportabile.

2

Diario per i miei amori

(Napok Szerelmeinnek, Ungheria 1987, durata 141’)

 Gli amori di Juli sono i suoi ideali di giustizia e libertà, il cinema e la sua patria, l’Ungheria.

C’è anche Jànos, certo, ma è un simbolo, è l’uomo-padre oggetto di amore puro e indistruttibile, una presenza che rassicura anche quando non c’è.

Il tema dell’abbandono e della solitudine, forte già nel primo Diario, ora diventa connotazione costante della figura di Juli, donna determinata, fermamente autonoma, costretta ad una lotta giornaliera in un tempo difficile.

E’ un lungo tratto di strada, dal maggio 1945 al 1957, quello che Mészáros le fa percorrere, la storia complessa e traumatica di quegli anni si riflette nel suo sguardo e nei tanti momenti di smarrimento che deve superare da sola.

Il Diario inizia alla fine della seconda guerra mondiale, con riprese in bianco e nero delle truppe sovietiche che festeggiano per le strade di Berlino.

Documenti di repertorioa cui, come spesso accade nei Diari, si accompagna la fiction, e da un treno scende un attore che interpreta Stalin, corpulento e sicuro di sé nella divisa bianca coperta di mostrine e medaglie, che saluta soddisfatto e compiacente le masse in delirio.

Mészáros mescola abilmente realtà da cinegiornale e fiction, una scelta stilistica che ben riflette un tempo in cui i confini tra realtà e finzione erano incerti.

Interpretare e modellare la realtà materiale, arte propria del cinema, era un’arma a doppio taglio di cui ben si conosceva l’efficacia quando la realtà era solo quella interpretata dal Partito.

Non ci vorrà molto perché Juli capisca quali saranno i suoi problemi di regista in un tempo di pensiero unico.

A Budapest una commissione deve decidere sulla sua richiesta di ammissione alla Scuola di Cinema.

Toni sprezzanti e risate maligne.

Una donna? Una diciottenne! E dovrei ammetterla alla facoltà?E che tipo di film vuole fare?” dice un commissario girandole intorno con fare insinuante.

Sulla gente e come vive” risponde seria Juli.

Bene compagna – si alza in piedi un’altra commissaria – senta, parliamoci seriamente, stiamo costruendo una nuova società in cui si stanno unendo contadini e operai tutti molto talentuosi, e non possiamo accoglierli tutti. La sua famiglia può aiutarla. Diventi un’insegnante o un medico”.

“Non voglio diventare un medico”

“Senta carina – riprende il primo, untuoso – non tiri troppo la corda, venga a casa mia per un caffè una sera. Le spiegherò per filo e per segno cosa significa essere registi”.

Juli non si arrende, negli incubi notturni invoca il padre, è il sogno della cava di marmo, vede il viso di Jànos dietro le sbarre della prigione in cui l’hanno rinchiuso, troverà la forza anche stavolta.

La matrigna riesce a mandarla a Mosca per studiare Economia, lei convincerà i russi a farle scambiare il posto con un giovane ungherese che vuol diventare economista e non regista. Un provvidenziale scambio di nomi e un destino segnato.

La partenza è felice, c’è aria di festa in stazione, contadine vendono mele e fiori, Juli sorride, manifesti di Stalin e altri potenti attaccati al treno promettono un futuro radioso, canti patriottici risuonano: “Stalin è la nostra battaglia, Stalin è la pace, Stalin è la nostra famiglia, il mondo è costruito in nome di Stalin”.

E’ il momento centrale del film e della vita di Juli. In quella scuola hanno studiato i più grandi del Cinema, questa volta la commissaria è una donna generosa: “ Sosteniamo i compagni di Budapest”.

A lezione di cinema una lectio magistralis sulla CorazzataPotëmkin è un pezzo famoso di critica cinematografica di alto livello. Juli guarda e apprende, ma i suoi documentari non piacciono alla nomenklatura, la realtà dei contadini che muoiono di fame, la loro paura del presidente della fattoria collettiva mandato dalla città, le regole assurde del piano quinquennale di Stalin che toglie quel poco che si produce, la deportazione se si osa aprire bocca.  La commissione è a disagio, nessuno studente aveva mai osato tanto, il documentario di Juli per l’esame di Stato è inaccettabile.

Così com’è non è presentabile.”

“Questa è la realtà, queste persone non mentono!”

“Forse, ma un regista deve guardare oltre la realtà, bisogna creare una nuova realtà, per noi ciò che conta è il futuro, bisogna creare l’uomo nuovo, l’uomo positivo. Riscriva il testo, rimonti il documentario. C’è molto che deve capire e acquisire famigliarità con questo paese.”

“Credo che abbiamo opinioni diverse su molte cose – ribatte calma Juli – compresa la realtà e il cinema”

E in attesa di una “nuova realtà” sfilano migliaia di uomini e donne piangenti al funerale di Stalin nel ‘53.

Magda, funzionaria di Partito doverosamente arrivata per l’occasione, è quasi alle lacrime, Juli la guarda perplessa poi scappa via a fatica dalla pazza folla che stringe da tutte le parti, non resiste.

Mentre le masse soffrono e il feretro sfila seguito dalle note solenni della Marcia Funebre di Chopin, nel bagno della scuola le compagne di Juli sono sconsolate, ricordano devote il “piccolo padre”, la Grande Russia gli deve la vittoria in guerra, si sentono orfane.

Un carrello laterale scorre sui primi piani delle ragazze, sullo sfondo scuro i volti sono illuminati, ognuna ricorda quegli anni bui, la chiamata in guerra portata con lettera dal postino, i paesi rimasti senza uomini, la fame.

Juli no, impassibile ricorda il padre fatto deportare da Stalin e l’arrivo in stazione, reduce di guerra, del marito della vicina di casa che l’aveva sfamata quando era rimasta orfana.

Era un cubo, senza braccia né gambe. Lo portavamo fuori in una scatola ogni giorno e ci pregava di ucciderlo”.

 

Tre anni e arriva il ’56, si celebra il 20esimo Congresso del Partito Comunista, Kruscev svela i crimini di Stalin, l’Ungheria vuol cambiare strada e scrollarsi di dosso Mátyás Rákosi,il più stalinista degli ungheresi”.

Ma nulla trapela a Mosca dei fatti di Budapest, solo un’amica, Anna Pavlovna, attrice incontrata alla scuola di cinema, rivela a Juli quello che sta accadendo in Ungheria.

Juli è in fibrillazione, deve assolutamente tornare a Budapest, ma non è facile avere il permesso. Lei urla ai cancelli dell’ambasciata da cui è stata poco gentilmente respinta, un guardiano le dice sornione: “Ci sono compagni a Budapest che sarebbero felici di essere qui al sicuro”.

Un primo piano del volto di lei e il rumore del cancello di ferro che si chiude.

Inizia il terzo Diario.

3

Diario per mia madre e mio padre

(Naplo Apamnak, Anyamnak, Ungheria 1990, 119 min)

 Novembre 1956: Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all'alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero.”

Così il comunicato di Imre Nagy al Paese, mentre le menzogne di Mosca sul governo Kadar che avrebbe chiesto l’intervento dell” Armata Rossa per scongiurare la deriva imperialistica manovrata da forze fasciste del Paese passano alla radio filtrate dalla Tass.

Bisognava, come diceva Goebbels, “dire una bugia più volte perché diventasse credibile”.

L’accusa di fascismo e di controrivoluzione ai veri rivoluzionari divenne il facile espediente per cattive coscienze e ignoranze colpevoli, in Ungheria e nel resto d’Europa.

Diario per mia madre e mio padre, un film ungherese costruito su filmati documentari, non mostra mai la Rivoluzione del 1956.

Facile capire il perché della scelta di Mészáros.

Quella Rivoluzione aveva suscitato speranze di liberazione dal giogo russo dal 23 ottobre al 10/11 novembre, e in meno di due settimane era stata  schiacciata dai carri armati sovietici.

Il cumulo di menzogne che furono costruite intorno ne esalta il profilo, ed è quello che alla regista interessa denunciare.

Juli riesce fortunosamente a tornare a Budapest da Mosca e vede tutto quel che la violenza ha lasciato dietro di sé, case sventrate, file di bare, lumini che ardono a terra.

Il film procede con ritmo asincronico, nel presente si aprono scene del passato, brevi finestre senza colore. La sequenza più lunga è dedicata alla statua araldica di Stalin, per anni gloriosamente eretta davanti al Parlamento.

Una gran massa di gente felice per la morte del dittatore la butta giù, impresa non facile su cui si accaniscono oltre misura.

Le statue sono le prime a crollare, si sa, e se il dittatore non c’è più è cosa che galvanizza, ci si sente eroi con poco. Ma le statue che cadono non cambiano la realtà, le masse osannanti torneranno a riempire le piazze cantando l’Internazionale nello splendido finale del film, giocato sul montaggio alternato fra la solenne parata militare seguita all’occupazione sovietica e l’impiccagione di Jànos, accusato come “controrivoluzionario” e condannato a morte da un cosiddetto tribunale del popolo.

Nella vita del popolo ungherese la rivoluzione del ’56 fu uno spartiacque, e lo fu anche per il comunismo che cominciò a mostrare al mondo il suo vero volto.

Per le altre nazioni europee, e per tanti che allora si trovarono ad un bivio sul giudizio da adottare sui fatti d’Ungheria, e non sempre fecero la scelta giusta, sarebbe stato un utile segnale su strade da prendere in futuro ed errori da non fare..

Ma nei circoli intellettuali, fra compagni di facoltà, gente di strada, politici di fama internazionale, l’Ungheria ebbe il destino segnato e l’Europa si riempì di profughi, i cimiteri di tombe senza nome.

Riportare la verità nel binario giusto, questo l’intento primario dei Diari e l’ultimo Diario è il più sconsolato perché contiene il tramonto di tutte le idealità, quel 1956 peserà sempre sui destini dell’Europa nel secolo successivo.

 

Juli si trova ad un passaggio fondamentale della sua vita.

Ha venticinque anni, tutto può ancora cominciare ma può anche non farlo se il tempo vissuto fino ad allora ha lasciato troppe piaghe.Raccogliere le forze per andare avanti è imperativo categorico, i fatti del ’56 sono stati il culmine della storia della sua generazione.

Il terzo e ultimo Diario contiene l’epilogo della tragedia, tutto ormai è avvenuto e poco ancora resta, e non sarà meno devastante.

Facce note e personaggi nuovi salgono sulla scena, la Storia vista da vicino apre spiragli inusitati per far comprendere, e quello che meglio risalta è la solitudine di un popolo lasciato al suo destino.

Un topos nella storia dei popoli.

Poche voci illuminate arrivarono da lontano, una fu quella di Pietro Nenni:

Gli ungheresi chiedono democrazia e libertà. Il vecchio motto che non si sta seduti sulla punta delle baionette vale anche per i carri armati. Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come è avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze ed i problemi da essa poste rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell'Europa orientale, anche con i silenzi, i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare. Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è aiutarli a risolvere i problemi da essi posti a base del rinnovamento della vita pubblica nel loro e negli altri paesi dell'Europa orientale, aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà. Daremo tutta l'opera nostra in aiuto del popolo ungherese perché possa attuare il socialismo nella democrazia, nella libertà, nell'indipendenza.

(da L’Avanti, 28 ottobre 1956)

 Le ultime sequenze del film si raccolgono in tre momenti decisivi: la festa di Capodanno, il processo a Jànos, l’esecuzione.

Nell’appartamento di Budapest ci sono vecchi e giovani, residui di lotte e sconfitte e nuove forze per il futuro. Si balla, si beve, si scherza, ci si maschera, si cerca di non pensare, le feste di Capodanno servono a questo.

L’allegria è forzata, un improvviso sopralluogo della ronda notturna avvertita dagli schiamazzi rompe l’atmosfera

Fuori si continua a morire, i carri armati hanno fatto il grosso del lavoro, adesso tocca ai tribunali. Entrano in scena i delatori.

La lunga sequenza del processo e impiccagione di Jànos non cede a pietosi tagli di scena. Il realismo di Marta Mészáros è chiamare sempre le cose con il loro nome e negli occhi di Juli, Jànos, sua moglie Ilia che sta per partorire un orfano, Magda, misera marionetta spenta, scorrono passato, presente e futuro.

Uno stormo di uccelli nel cielo unisce a distanza lo sguardo di tutti, gli occhi atterriti del piccolo figlio di Jànos, picchiato con la madre e Juli da soldati a cavallo davanti alle tombe anonime dove dovrebbe trovarsi il padre, chiude per sempre il racconto.

E’ l’inverno del 1957.

APPENDICE

 

FILM RECENSITI

The girl, 1968

Binding sentiments, 1969

Nine months, 1976

The two for them, 1978

Diary for my children, 1982

Diario per i miei amori, 1987

Diario per mia madre e mio padre,1990

 

NOTE BIOGRAFICHE

Nata a Budapest nel 1931, Marta Mészáros, 90 anni a settembre, trascorre gran parte della sua prima infanzia in Kirghizistan dove i suoi genitori, artisti comunisti, si erano trasferiti nel 1936. Sua madre era una pittrice e suo padre, László Mészáros, scultore.

Il padre fu arrestato nel 1938 e morì nel 1945, giustiziato durante le purghe staliniane per la sua adesione ai principi comunisti pre-stalinisti, la madre morì sei anni dopo.

Rimasta orfana e chiusa in orfanotrofio, Marta viene in seguito adottata ufficiosamente da un funzionario comunista ungherese che vive in Unione Sovietica.

Tornata in Ungheria si trasferisce di nuovo in Unione Sovietica nel 1946 per studiare in quello che allora era chiamato l'Istituto statale di cinematografia dell'Unione, o VGIK, a Mosca, la migliore scuola di cinema della nazione. Artisti come Alexander Dovzhenko, Sergei Eisenstein e Vsevolod Pudovkin vi hanno insegnato, alunni famosi come Kira Muratova, Sergie Parajanov, Larisa Shepitko, Aleksandr Sukurov e Andrei Tarkovsky l’hanno frequentata.

Dopo la laurea nel 1956, Mészáros realizza brevi documentari sia in Ungheria che in Romania per il Budapest Newsreel Studio (forse con il suo primo marito, il collega regista Làszlò Karda).

Il debutto cinematografico risale al 1968 con The girl.

Nel 1960 sposa Miklòs Jancsó, iniziatore della New Wave ungherese, e con lui ha tre figli. Si separano nel 1973 e il loro primo figlio, Miklòs Jancso jr. lavora come direttore della fotografia in alcuni dei suoi film.

Insignita di riconoscimenti e premi nei più prestigiosi Festival del Cinema, vince l’Orso d’oro a Berlino nel 1975 con Adoption, premio assegnato per la prima volta ad una regista donna.

Il suo ultimo film, Aurora Borealis (2017), ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali e ripercorre l’occupazione sovietica di Vienna attraverso il destino di una madre e di una figlia.

Marta Mészáros 

 

 www.paoladigiuseppe.it

 


 

 

 

 


 

 

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