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Uno sguardo (virtuale) a Est. Far East Film Festival # 22
di M Valdemar ultimo aggiornamento
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 Rinviato il Far East Film Festival 2020 | instArt magazine

Il primo festival on line non si scorda.
Anche perché è appena terminato.

A vincere la ventiduesima edizione del Far East Film Festival aggiudicandosi il Gelso d’oro è stato il film di chiusura, per i quali già si spendevano ottime referenze, ovvero il dramma cinese Better Days di Derek Tsang.
Gelso d’argento per il malaysiano Victim(s), mentre quello di cristallo è andato al taiwanese I WeirDO, che ha altresì conquistato il premio del pubblico di Mymovies.
Un'edizione anomala - e, speriamo, dico, unica - che porta con sé tante riflessioni, in particolare sulla fruizione di un evento pensato per essere vissuto dal vivo.
Dunque, se da un lato gli agi della visione casalinga sono banalmente intuibili, dall'altro proprio queste comodità rischiano, come fanno, in effetti, di compromettere l'integrità che almeno il cinefilo militante duro e puro pretende: fatali le distrazioni random, le messe in pausa (magari per una capatina o anche due ai servizi o in cucina o per prendere degli appunti), il cellulare a portata di mano, gli screenshot delle scene salienti, e il citofono di casa che squilla, la posta, il corriere con l'ultimo pacco, il cane dei vicini, i vicini, quelli lontani.
La vita, in sintesi.
Mentre, sappiamo, l'esperienza sul campo ammette una partecipazione esclusiva: una volta che entri in sala non puoi far altro che concentrarti sul grande schermo (al netto degli immancabili imbecilli ciancianti o con lo sguardo fisso sul telefono illuminato manco fosse un centro commerciale in piena notte).
Ma, al netto di puerili considerazioni della domenica - ma anche del lunedì, del martedì e del sabato, gli altri giorni no perché ho judo -, rimangono importanti questioni di fondo, finanche un po' inquietanti.
Il successo e l'adesione degli spettatori davanti al pc - raccolte inevitabilmente torme di compulsivi streamingatori professionisti che mai avrebbero voluto né potuto presenziare fisicamente in quel di Udine; e lo stesso vale, naturalmente, per tutte le avventure analoghe (festival, fiere, mostre) tenute vive sulla rete in giro per il globo - influirà in qualche modo le proiezioni future?
Qualcuno opterà addirittura per spostarsi definitivamente on line?
E altri affiancheranno l'evento live a quello in streaming? E in che misura?
Quanti chiuderanno o si ridimensioneranno?
Il modello Netflix vincerà?
Perché nei film orientali mangiano sempre, e sempre tutte pietanze da leccarsi i baffi anche se non ce li hai?
Perché a quelli che commentano “in diretta” i film (o mio Cthulhu, che orrore cosmico!) non tolgono il voto elettorale, internet e la tessera dell’autobus?

E - particolare trascurabile - ha senso spendere/sprecare giorni di vacanza (c'è chi studia, chi lavora, chi ozia) per restarsene a casa davanti al pc o alla tv?
[nota personale: ho visto molti meno film del mio standard abituale proprio perché ho continuato a lavorare regolarmente, tenendo libere solo le giornate di sabato e domenica e le serate; sì, una "faticaccia"].
Dubbi che né io né voi né Burzum sapremmo, oggi, sciogliere con certezza.
Sciogliamo un cubetto di ghiaccio dentro il bicchiere di single malt, piuttosto.
Allora, intanto, non rimane che parlare dei film.
È stata, per quanto ho potuto vedere, una discreta edizione, magari pochi picchi di rilievo ma con un numero consistente di titoli validi.

I migliori:

- Better Days;
- I weirDO;
- Dance with Me.

I peggiori:

- Wotakoi: Love is Hard for Otaku;
- We are champions;
- Crazy Romance.

Segue infine carrellata di quanto visto, in rigororo ordine cronologico, in gaie giornate assolate e in buie nottate afose, tra snack consumati furiosamente e furtivamente (ebbene, sì, cedetti, ma solo una volta, credetemi, al lato oscuro, ovvero il sushi: sarà stata la salsa di soia) e voluttuose alcoliche bevute (il buonissimissimo sanissimo thè verde biologico di provenienza certificata e garantita da Buddha in persona ve lo lascio, prego).

Annesse brevi incontestabili opinioni.

Alla prossima.
Virus mortali o piaghe bibliche o piaghe da decubito divanale permettendo.

[p.s.: vendonsi un paio di quadernetti a quadretti traboccanti illuminanti osservazioni sui massimi sistemi, dalla vita al cinema alle arti tutte fino alla nobile pratica delle gare di flatulenza. Astenersi illetterati, perditempo, perdigiorno e perdinotte]

 

GUNDALA
Ambiziosissimo "primo capitolo dell'universo cinecomic indonesiano", scritto e diretto da Joko Anwar, è una classica origin story che sui titoli di testa evoca i coloratissimi e iconici titoli Marvel mentre taglio, registro e risvolti narrativi sono più contigui alla seriosità DC, a cominciare da Batman Begins. Il Canovaccio è un riciclo di ricami e canoni risaputi; non mancano neppure spiegoni, frasi a effetto, dialoghi banali, buchi di trama; rivedibile la resa estetica caratterizzata da una fotografia dalle strane tonalità beige-seppia che appiattiscono personaggi, location e dimensione temporale rendendoli (più) anonimi. Colonna sonora prevedibilmente solenne, assenza di humour, e una dimensione di cattivo incompiuta e zoppicante (l'ennesimo tizio con disabilità, acclamato dal popolo e con un grande piano in mente) spogliano il film della necessaria epica. Peccato per le potenzialità non sfruttate, rintracciabili nel protagonista, Sancaka, bambino sfortunato perso nei meandri di una dannata giungla urbana che non ammette umanità (riusciti i flashback che descrivono condizioni ai margini e duri eventi traumatici) e che impara presto a "non farsi gli affari suoi". Nel complesso però, e al netto degli evidenti limiti e difetti, il film mantiene una sua dignità (ed è già meglio di molti estenuanti omologhi americani così tanto amati e venduti). Scena post-titoli di coda con nuova minaccia per il consapevole supereroe nonché minaccia di sequel.
Voto: 5
[recensione completa]

CRAZY ROMANCE
Commedia sentimentale sudcoreana dai colori pastello, ebbra di personaggi alla ricerca perenne dello stordimento a mezzo colossali sedute alcoliche (con il Soju a farla da padrone) che, tra una bevuta e l’altra, trovano il tempo di dedicarsi al lavoro e intessere relazioni ovviamente complicate. I toni brillanti di battute più o meno a segno (ma spassosa la frecciata indirizzata dalla protagonista all’ex stalker sulle dimensioni ridotte del suo pene, inferiori persino all’alluce – e l’inquadratura passa subito a lui che osserva il suo piede) e di gente sovraeccitata che fa e dice cose sufficientemente folli (dai colleghi che spettegolano al capo che li porta in gita di lavoro e si esalta al karaoke) sono però affossati tanto da una verbosità sfinente quanto da una messa in scena patinata, glamour, che si limita a riprendere in modo anonimo locali eleganti, bar, ristoranti, case abitate da caos e animali invasori (il gatto, il piccione) giusto per riempire storia e inquadrature, le luci della città. Immancabile la (alticcia) sequenza da resa dei conti – la cena aziendale – in cui si scoprono altarini e si compiono gesti assurdi, infilata per risollevare i ritmi compassati e staccare la mdp da attori imbambolati (più lui) che non reggono la scena. Lieto fine annunciato. In un bar.
Voto: 5

SOUL
Dalla Malaysia un horror psicologico rurale che attinge a folklore e leggende locali: protagonista una famiglia – madre e due figli – la cui dimora è una casetta isolata nel mezzo di una giungla fitta e  disabitata. Se l’armamentario è un classico compendio de paura – eventi oscuri e inspiegabili, presenze sinistre, sacrifici di animali, maledizioni e sortilegi, sangue, sgozzamenti, simboli, possessioni, fiamme, inganni del maligno – e, sebbene non spaventosissimo però funziona, il vero fulcro è il nucleo famigliare, di come i suoi componenti  reagiscano all’intrusione di tre figure inquietanti che appaiono dal nulla (una bambina insanguinata, una vecchia che sa cose e dice e fa cose, un vecchio orbo in possesso di una strana lancia), i cui ruoli ovviamente non sono subito chiari e che ne mineranno rapporti e dinamiche. Soul è ben girato, senza tanti fronzoli, magari dal passo un po’ paludato ma visivamente intrigante e connotato da atmosfere tese e dense: la resa della giungla quale entità “viva” (una natura minacciosa di alberi e animali, suoni e rumori, presagi, cattivi auspici) e l’impianto fotografico che cattura bene luci e immagini suggestive contribuiscono a fare dell’horror male un’opera coesa e interessante, che oltretutto non sente il bisogno impellente di sprecarsi in inutili, noiosi spiegoni. Il Male non ha nome, e non deve «fare altro che sussurrare».

Voto: 6,5


A BELOVED WIFE
Film giapponese che, a detta del regista Adachi Shin, si basa su esperienze reali vissute dal medesimo con sua moglie. Speriamo vere fino a un certo punto. Il protagonista è uno sceneggiatore male in arnese, sfigato, scansafatiche e fissato con il sesso, compito di mantenere la famiglia è della moglie, un simpatico concentrato di stronzaggine che gli vomita addosso ininterrottamente un disprezzo da guinness. Il viaggio di lavoro della seconda parte è un’ulteriore tappa di una tragicommedia che sfiora le linee del surreale e che vive tra i pensieri dell’uomo – perlopiù tesi a organizzare il modo di farsi l’adorata consorte – e le sventure scaturite tra azioni fantozziane dello stesso e la carica negativa di lei. Essere una coppia e cosa significa convivere: cristallino il senso del film, ovvie sebbene portate all’estremo le problematiche, meno il fatto che dinamiche e schermaglie siano una costante che si ripete e si ripete ancora lungo le (eccessive) due ore di durata, con tutto il bagaglio di passaggi a vuoto, fasi di stanca, riempitivi. Non bastano un paio di scenette divertenti a salvare un film dal suo portato didascalico e semplicistico.
Voto: 5

EDWARD
Ciò che colpisce immediatamente è la condizione degli ospedali (parliamo delle Filippine), e in particolare di uno pubblico di Manila. Un delirio. Gente ammassata, personale sanitario scarso, igiene rivedibile, parenti dei pazienti che si sostituiscono agli infermieri nell’accudire i malati e che sotto i loro letti ricavano giacigli di fortuna ove dormire di notte, visite dei dottori settimanali, analisi che ci impiegano settimane a giungere. Un quadro sconfortante che denuncia il sistema sanitario filippino. Edward è un ragazzo al capezzale del padre assieme al fratellastro, e vive l’ospedale in maniera scherzosa, con gli ardori e l’incoscienza tipiche dell’età. Laddove protagonista e film si elevano è nell’improvviso cambiamento dello stato delle cose: il fratellastro che va via lasciandogli l’onere di provvedere al genitore, una ragazza aggredita, Agnes, che giunge nella struttura e di cui s’invaghisce. La crescita di Edward è una conseguenza che l’opera diretta da Thop Nazareno inscena con equilibrio delicato tra istanze impegnate e sguardo disincantato sul giovane e sul suo universo che evolve. Allo stesso modo, bilanciati gli elementi drammatici, leggeri, sentimentali: risulta quindi credibile e coesa la costruzione del personaggio, la cui interazione con le altre figure importanti (l’amico di cazzeggio, il fratellastro, la capo-infermiera, il padre, Agnes) è fondamentale per definire la necessaria introspezione. Ottimo il girato: in particolare si segnalano l’avvolgente pianosequenza della mdp che si libra tra le corsie e le stanze degli ospedali restituendone caoticità e problematicità e in generale l’aderenza alla figura di Edward tra primi piani, campi medi e campi lunghi (come conferma anche la ripresa che stringe su di lui in posizione fetale nel bel finale. Narrazione un po’ carica, con componenti che avrebbero meritato maggior spazio e tempo (il traffico dei cadaveri, che pure contribuisce a descrivere le distorsioni e la deriva della società).
Voto: 6,5


WE ARE CHAMPIONS
Nulla di nuovo sul fronte dei teen drama sportivi. Due fratelli, prima attaccatissimi e soli contro il mondo, poi uno contro l’altro. Sul campo da basket. Il ribelle finisce nella squadra superfavorita del grande liceo, il più grande, affetto da disabilità uditiva, in quella scalcagnata e all’ultima avventura della scuola piccola e sfigata. Se vi siete costruiti il film in testa, sì, è esattamente, precisamente, al millimetro quello. Lo sviluppo dei personaggi passa per un presente difficile, causa l’abbandono del padre per lavoro e la convivenza presso i rigidi zii, inevitabili meccanismi risaputi dei film a tema (i compagni, l’allenatore, gli allenamenti, le partite, il tifo sugli spalti ecc.) visti nelle due ottiche contrapposte, e l’altrettanto puntuale retorica che va di pari passo con un manicheismo di fondo che la dice lunga sui limiti di scrittura. Buone le riprese del gioco sul campo, accompagnate dalla giusta dose di musica pulsante, ma non basta a risollevare un prodotto assai convenzionale.
Voto: 4,5

BEASTS CLOWING AT STRAWS
La sovrapposizione dei piani temporali, la suddivisione in capitoli, la spietatezza riservata a personaggi in cerca di senso (sottoforma di una borsa Vuitton piena di soldi dalla rotta travagliata e curiosa), l’ingarbugliamento del racconto, compongono un affresco bizzarro e satirico, ai limiti del grottesco, su un’umanità alla deriva, corrotta, amorale, ingorda. Tradimenti, estorsioni, ammazzamenti anche feroci, equivoci, eventi avversi, colpi di scena e colpi di coda e colpi a effetto: un’iconografia crime di tutto punto, accompagnata da accessori da commedia nera non sempre abbinati benissimo, e che trova compimento nella raffinatezza della messinscena e nella ricercatezza della violenza (coreo)grafica. Gioco al massacro che si segue con un certo gusto, persino nell’ultimo, esagerato twist, ma che non riesce a celare la pretestuosità e l’artificiosità del progetto che all’inizio fa un po’ di fatica a prendere il giusto passo. Bello, se ci si ferma alla superficie. Scritto e diretto da Kim Yong-hoon.
Voto: 5,5

DANCE WITH ME

«I musical sono per gli idioti».
L’adorabile Ayaka Miyoshi, interprete della protagonista Shizuka Suzuki, è la capobanda di Dance with Me, svitata e irresistibile commedia musicale giapponese dalla premessa narrativa elementare e già vista. Una seduta da un sedicente mago dai baffetti “magici” ipnotizza per sbaglio la giovane in carriera Shizuka: ogni volta che questa sentirà della musica – che sia una canzone in radio o in ascensore o la suoneria del telefono – lei subirà l’insopprimibile impulso di mollare tutto per mettersi a ballare e cantare. Ovunque capiti, in qualsiasi contesto. La disperata ricerca della donna di liberarsi dalla “suggestione post-ipnotica” che le causa qualche comprensibile imbarazzo, è un viaggio – anche letterale da circa metà film – caratterizzato da compagni/alleati strambi e improbabili e contrappuntato da siparietti musical-danzerecci ad alto tasso di coinvolgimento. Divertimento assicurato, grazie alla verve della protagonista (e della sua improvvisata corpulenta spalla), a un impianto estetico glamour e ipercromatico che non stona affatto, e a (non molti) numeri musicali non particolarmente lunghi o complessi: spassose la sequenza al ristorante nel quale la nostra finisce appesa a un lampadario e ripresa dalle tv, la prima in ufficio, tra lo stupore di rigidi colleghi e superiori, e quella con la gang-crew di pericolosi figuri tatuati. C’è anche spazio per una riflessione sull’amicizia e sulla scoperta del proprio posto nel mondo ma il gran finale riporta tutto alla dimensione spensierata e gioiosa. Fresco, leggero e deliziosamente folle. Come la sua protagonista.
Voto: 7,5

Ayaka Miyoshi

Dance with Me (2019): Ayaka Miyoshi


MY SWEET GRAPPA REMEDIES
Ok, di grappa in realtà non ce n’è granché. Ma rimane il senso, il gusto, per quello che rappresenta un simbolo (alcolico) come rimedio a un persistente stato di infelicità, di depressione che accompagna Yoshiko, donna di mezza età. La donna che c’era. La macchina da presa della regista Akiko Ohku la insegue, con taglio minimalista, quasi documentaristico e tocco carezzevole, soffermandosi su dettagli e senza mai invadere gli spazi, mentre i pensieri della donna, riportati su un diario o scaturenti dal momento, sono portati alla luce dello spettatore da un voice over costante. Non ci sono grandi rivelazioni o eventi sconvolgenti: il ritratto è a passo di donna, in punta di malinconia, sulle sue riflessioni semplici o profonde o pirandelliane che siano, sui suoi imbarazzi e disagi, rimpianti e  ricordi, sul bisogno di cambiamento, sulle stagioni della sua condizione di solitudine. My Sweet Grappa Remedies si prende il giusto tempo, quello necessario, per un’elaborazione introspettiva stratificata, lasciando crescere il personaggio tra percorsi imprevisti (la collega-amica, il giovane uomo per cui prova qualcosa) e la necessità di non guardare troppo in là (come al tempio rivela l’abitudine di «esprimere solo desideri a breve termine»: «Spero che berrò altro buon alcool»). Bello il finale nel quale il riflesso sugli occhiali a specchio dell’amica svela un aspetto di Yoshiko inedito.
Voto: 7

VICTIM(S)
Il cartello «Ispirato a fatti veri» e l’immediata, istintiva reazione del pubblico alla visione che, accorato, auspica che venga «mostrato nelle scuole» deve mettere in allarme sulla bontà di un film, il malese Victim(s), il cui tema portante è il bullismo. A conti fatti si tratta di un bignami di tutti i fenomeni di fragilità e problematicità presenti tra i banchi di scuola, una messa di carne al fuoco eccessiva che, unita a un esibizionismo e a uno spiegazionismo che non lasciano margini di interpretazione, rischiano di lasciare al film (unicamente) un’impronta da contenuto a tema divulgativo, di opere pensate per il consumo circoscritto in determinati ambiti. Rimane la costruzione di una vicenda dolorosa e dai risvolti forti, la cui complessità vive in un disvelamento narrativo (per mezzo di flashback e cambi di prospettiva) dai tratti programmatici. Ogni personaggio ha una storia personale non sempre felice, ogni episodio di violenza ha cause ed effetti: gli atti di bullismo sono descritti con crudezza, il vissuto delle figure in campo cela contorni foschi, il bozzetto di vittime e carnefici svela un quadro più ampio sempre più torbido. Un quadro impietoso, assai poco edificante, da cui non sfuggono le (ir)responsabilità del mondo degli adulti (genitori, insegnanti, autorità), delineate in maniera puntale, le condivisioni di post e contenuti pericolosi da parte degli studenti su social e telefoni,  e soprattutto il ruolo dei media, le cui morbosità e ricerca del sensazionalismo conosciamo bene.
Voto: 6

IMPETIGORE
Annata prolifica per il Joko Anwar del supereroistico Gundala di cui sopra: marca sempre 2019 Impetigore, horror di pregevole fattura, il cui incipit ambientato in un casello autostradale poco frequentato in(tro)duce subito nel mood giusto. Il cóte orrorifico è un abito che il villaggio natio della giovane Maya – un posto sperduto e isolato nella giungla giavanese, dimenticato da dio dagli uomini e dall’epidermide – indossa per scatenare la sua macabra danza di malefici e apparizioni fantasmatiche, di caccia alle streghe e riti innominabili, di indigeni ostili e insani e vecchie dimore dannate, di teste sgozzate e pelli scuoiate, di bambini che nascono deformi e un passato terribile, di marionette fatte con pelle umana e di pupari che agiscono col favore delle tenebre e ancora di vecchie pazze alienate che hanno l’aspetto di vecchie pazze alienate e stronze. Ottima la gestione del materiale de paura, cha va dalla classica rumoristica della casa infestata alla esperienza onirica agli squartamenti e ammazzamenti sgorganti sangue in copiose quantità: alle atmosfere malsane, portate in dote da una fotografia che imprime immagini suggestive e inquadrature tra l’allucinato e il sulfureo, si accompagnano notevoli sequenze. Da segnalare in particolare quella, lunga ed elaborata, che alterna la visione in sogno di Maya e la fiaccolata del paese mobilitato per una simpatica caccia mortale: la scoperta della verità è un angoscioso e sanguinolento, terrificante, teatrino delle marionette (il Wayang, tradizionale teatro delle ombre giavanesi) che trasuda dannazione e una malvagità irrefrenabile. Nei minuti finali si perde un po’ di lucidità ma va bene così.
Voto: 7

scena

Impetigore (2019): scena


I WEIRDO
La bellezza di I weirDO risiede nel suo farsi scandaglio filmato e in divenire degli anfratti emotivi che celano paure e (bi)sogni, nel suo farsi corpo figurato sulla cui pelle restano incisi i (di)segni delle ferite e delle imperfezioni, nell'innescare le porte scorrevoli come scarto e messinscena dei tempi e delle esistenze. Quella del regista e sceneggiatore Liao Ming-yi, è opera capace di ragionare sul presente – nel quale si trova perfettamente e furbamente calato – e sulla sua rappresentazione: il sentimento è destinato inesorabilmente a deteriorarsi nel momento in cui uno dei due cambia/"guarisce" facendo così cessare la condivisione di quella particolare condizione che li aveva fatti incontrare e unire. Tanto i dispositivi narrativi (la malattia – il DOC, disturbo ossessivo compulsivo) quanto quelli formali (il girato su iPhone XS nella prima parte, il 16:9 nella seconda) e i simbolismi (gli "animali guida" che schiudono accessi alternativi) concorrono alla configurazione coerente di un film che, peraltro – stanti talune incertezze di fondo e pause –, oltrepassa le linee elementari ed edificanti della "favoletta pop" nell'era del coronoavirus, evocata su locandina e immagini/video promozionali. Bardati e mascherinati, ossessionati da germi e affetti da fobie patologiche e allergie, come (già) preparati per uno stato pandemico, Po-ching e Ching ispirano immediata simpatia: tutta la prima fase impagina una bizzarra, colorata e assai divertente costruzione di un'unione, che si pensa possa esaurirsi in una qualunque storia tutta carinerie ed equivoci; ma il ritratto muta, e disorienta. Al tifo da rom-com si sostituiscono vibrazioni e variazioni in grado di passare su altri livelli di lettura: un flusso di sequenze e immagini e dialoghi che radiografano fratture possibili (e inevitabili?) fino a giungere alla sola copia possibile, quella di un'istantanea ideale di felicità che resta e si imprime negli occhi e nei cuori dello spettatore.
Voto: 7,5

[recensione completa]

Austin Lin, Nikki Hsieh

I WeirDO (2020): Austin Lin, Nikki Hsieh


AN INSIGNIFICANT AFFAIR
Commedia agrodolce, firmata dalla debuttante nonché giovanissima Ning Yuanyuan, che conferma quanto il sistema scolastico e culturale in genere cinesi siano così lontani dai nostri sche(r)mi: lo spunto di An Insignficant Affair verte sull’equivoco di cui sono vittime due studenti, l’intraprendente ma svogliato Xiaoshi e la brillante e dolce Xiaoyu, allorquando un banale gioco tra i due viene scambiato per effusione sentimentale, proibita dai regolamenti scolastici. Sottoposti a procedimento disciplinare, affinché comprendano la «gravità dei fidanzamenti tra studenti», e dunque obbligati a scrivere e divulgare una “lettera di autocritica”, i due ragazzi si troveranno costretti a inventare date e dettagli di una relazione inesistente e a continuare a cambiarla per venire incontro alle esigenze di insegnanti e preside. Una situazione giustamente definita “kafkiana”, ma anche wildiana («Non mi sembrava un vero appuntamento» - «Se gli insegnanti dicono che lo era, allora lo era»), strutturata con garbo e passo certo non celere, con gli elementi del paradosso e alleggerimenti brillanti, e configurata in una dimensione dei personaggi accurata e credibile. Personaggi la cui evoluzione passa per la nascita di quel sentimento prima inesistente, in maniera dolce e spontanea.
Voto: 7

EXIT
Ecco la cinesciocchezzuola del festival, il sudcoreano Exit. Consapevole (fortunatamente) della sua portata, tendenzialmente scema e di grana grossa, l’opera diretta da Sang Geun Lee è un disaster movie il cui protagonista, Yong-nam, è una sorta di disadattato ingenuo deriso persino dai bambini e con il pallino delle evoluzioni atletiche su sbarra. L’edificio scelto come luogo di cerimonia per festeggiare il padre e situato nel bel mezzo di un’esplosione di gas letale che travolge la città, diventa così luogo e modo per sfoggiare le proprie capacità ed elevarsi dalla condizione di scemo del villaggio, accompagnato dalla donna che, anni prima, con il rifiuto a una richiesta di appuntamento, ne aveva affossato la personalità. Vabbè, sto preambolo per dire di un grado zero di complessità (narrativa e di contenuti) che fa rima baciata ma senza lingua con una ricerca di spettacolarità in grado di accontentare chiunque mentre svolge altre funzioni e altri doveri nel proprio loculo abitativo. Sequenze sempre più improbabili, durante le quali però azione e tensione funzionano e la comicità demenziale scala la struttura filmica fino a prenderne possesso (il ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta della richiesta di soccorso fa davvero ridere). Geniale l’assembramento dei droni che circonda i nostri, peccato poi spariscano assieme alla plausibilità residuale di un colpo d’ala che lascia stupiti (vabbè, per dire).
Voto: 5

THE WHITE STORM 2: DRUG LORDS
Il glorioso cinema di Hong Kong non sembra passarsela benissimo, e questo secondo capitolo di The White Storm – in realtà solo nominale – ne è una conferma. Facce e cose di crimini e situazioni già viste e riviste, per quella che è una storia iniziata quindici anni prima tra due fratelli giurati appartenenti alla Triade e che si ritrovano in vesti opposte: uno (Andy Lau) è un ricco magnate della finanza che avversa gli stupefacenti (che gli hanno ucciso padre e il figlio che nemmeno sapeva di avere), l’altro (Luis Koo) è un potente e spietato signore della droga. Un evento scatenante li mette di fronte, in uno scontro che coinvolge anche un poliziotto integerrimo, fidati alleati a altri delinquenti. Un’opera che passa in rassegna passaggi e codici noti, tra pezzi action da sparatutto e uccisioni truci, intermezzi riflessivi banali e di riempimento e confronti accesi dai dialoghi e dalla meccanica prevedibili. Annesse figure di contorno irrilevanti (vedi la moglie del magnanimo magnate) e implicazioni mediatiche altrettanto superflue. Merita però la lunga, elaborata sequenza conclusiva, adrenalinica e a rotta di collo: comincia con una sparatoria per strada che coinvolge almeno tre fazioni contrapposte e termina con un furioso inseguimento stradale che ha il suo apice nella metropolitana, con auto che saltano su scale mobili e sfrecciano sui binari. Triello finale dall’esito intuibile con coda conciliatoria e buonista.
Voto: 5,5


LUCKY CHAN-SIL
Rappresentazione al femminile e (meta)cinefila, in Lucky Chan-sil della regista coreana Kim Cho-hee (già produttrice per  Hong Sang-soo), il fulcro è una ex produttrice di film indipendenti, Chan-sil, che ha visto bruscamente interrompere la sua carriera in seguito alla dipartita improvvisa del suo regista. E interrotta è la vita della donna, ora collaboratrice domestica per la sbadata sorella attrice Sophie: il carico di sentimenti contraddittori che prova (i rimpianti e la nostalgia di un tempo che fu, le incertezze riguardo il futuro) è un fardello che la trascina in uno stato di indeterminatezza dal quale fatica a trovare senso e vie d’uscita.  L’incontro con un insegnate di francese prima, con cui crede goffamente di instaurare una relazione, con una vecchia vicina di casa e infine con il fantasma in mutande e canottiera di Lesile Cheung, rappresentano i vettori di una elaborazione intelligentemente intimista ed efficace che sa fare i conti anche con le piccole cose del quotidiano. Ma anche sottilmente ironica e squisitamente cinefila («Quindi un produttore che fa?»): splendido il dialogo con l’insegnante, con lui che ritiene Ozu troppo semplice e che nei suoi film «non succede niente» (nonché di preferirgli Nolan…) e lei a ribattere, fiera, che il grande cineasta giapponese «cattura i miracoli di ogni giorno». Non mero pretesto bensì sincero complemento di una personalità catturata in tutte le sue sfumature e fragilità e solitudini, che riscopre il piacere della ricerca della felicità. «Voglio sapere cosa significa vivere davvero. Il Cinema è parte di questo».

Voto: 7


ROMANCE DOLL
Apparentemente, il titolo più curioso del Festival. Romance Doll solletica nella prima parte risvolti leggeri e pruriti prettamente maschili («Le tette sono una cosa seria») allorché il giovane adulto Tetsuo viene assunto in una fabbrica di “bambole dell’amore” (già “del sesso”) e, per apprendere meglio come è fatta davvero una donna, fa la conoscenza della modella d’arte Sonoko, con l’inganno che il calco del seno serva per nobili scopi medici. Segue innamoramento, seguono crisi matrimoniale prima e malattia di lei in seguito; tutto secondo un copione collaudato che lungo le eccessive due ore srotola un rapporto di coppia incisivo nel cui  dramma incombente trova compimento l’ossessione di Tetsuo per la bambola dell’amore perfetta, senza giunture e con la risoluzione del “problema del buco”. Pellicola in grado di coniugare leggerezza, umorismo talora anche greve (fondamentale la galleria di personaggi di contorno, partendo dal vecchio artigiano), sentimentalismo e drammaticità; indubbiamente Romance Doll, che dopo circa trenta minuti cala un po’ di ritmo, sa toccare le corde dell’emozione, con sequenze dolci e appassionate (bella per intensità e coinvolgimento la scena d’amore), altre evocative («Anche gli alberi morenti possono fiorire») ed altre ancora delicate (i bozzetti di Sonoko utilizzati per configurare la bambola perfetta). Un po’ prolisso e prevedibile, con battuta finale da molti non apprezzata ma che in realtà rappresenta una giuntura di autenticità.
Voto: 7


LINE WALKER 2 INVISIBLE SPY
Altro sequel nominale made in Hong Kong, Line Walker 2 Invisible Spy ha un incipit che racconta l’amicizia di due bambini talentuosi in un orfanotrofio. Decenni dopo, a Hong Kong, attentati di matrice oscura e organizzazioni segrete scompigliano città e autorità. Ritmo serratissimo – sparatorie, carneficine, esplosioni si susseguono senza quasi lasciar prendere fiato – per una pellicola che descrive in maniera caotica e approssimativa un universo fatto di spie, talpe, doppi e tripli giochi, tradimenti e inganni, esasperando il modello (irraggiungibile) di Infernal Affairs: colpi di scena e rivelazioni a posteriori hanno scarsa consistenza finendo con disinnescare qualsiasi pretesa di veridicità. Impianto narrativo farraginoso e complicato, che conta inoltre accumulo di personaggi e location così come di sottotrame solo per darsi un tono. Rimane il valore (buono) dell'intrattenimento, caricato di un'epicità elementare ma efficace e di residui di melodrammaticità che crescono lungo il film fino a che non si eccede. Da segnalare diverse sequenze action: dalla scazzottata nell'autobus alla lunga sparatoria in una città del Myanmar fino a quella che ha per teatro Pamplona, tra tori che speronano persone e auto e interminabili fasi sparatutto. Finale trascinato per le lunghe.
Voto: 6

CRY
Oibò, della mini-retrospettiva dedicata all'autore giapponese Hirobumi Watanabe, Cry è l'unico visto dal sottoscritto. Si tratta di un medio-lungometraggio (76 minuti) in bianco e nero, senza dialoghi, con cast ridottissimo e sound design fatto perlopiù di rumori di ambiente. Il racconto passa inevitabilmente per le immagini e descrive la classica giornata di lavoro di un allevatore di maiali (interpretato dallo stesso regista), il tragitto da e verso casa, il pasto consumato con una figura anziana. I grugniti dei suini, il vento, la pioggia, i passi in mezzo alla campagna, le spalate di letame, le posate che incontrano il cibo, i piatti da lavare e la dentiera da pulire, il fumo, i segni lasciati su carta: una sequela di schemi e azioni sempre uguali, nella cui ininterrotta ripetizione e nell'avvolgimento della macchina da presa che, parimenti, ripete le medesime inquadrature, risiede la natura di un copione probabilmente esistente solo nella testa dell'autore e che restituisce la solitudine e il senso di desolazione del paesaggio umano. Visione di un pessimismo/realismo feroce, su b/n rigoroso e potente che, tra riprese di stalla, casa, ambiente rurale e tralicci della rete elettrica, immerge in uno stato di sospensione/limbo che nemmeno la momentanea interruzione (l'uomo si reca al cinema, è da solo e si appisola durante la visione di un film proprio di Watanabe) può rimuovere. Siamo tutti reclusi in un recinto.
Voto: 7

scena

Cry (2019): scena


WOTAKOI: LOVE IS HARD FOR OTAKU
E la vita sarà pure dura per gli otaku ("giovane dedito in maniera ossessiva a una particolare attività, hobby o interesse - fumetti, cartoni animati, videogiochi"), mai quanto assistere a un film che dice quanto sia dura la vita per gli otaku. Una visione faticosissima, abitata da personaggi idioti che fanno e dicono cose idiote e hanno espressioni e pose idiote (insopportabile la mimica sempre assurdamente sopra le righe della protagonista), tanto che persino i numerosi stacchi musicali quasi (quasi) fanno fare un respiro di sollievo. Linguaggio, immaginario nonché sfrenato cóte citazionista attengono all'universo di videogiochi, anime, manga, doppiatori idoli, fandom ecc. che vale solo per iniziati: ripetute le scene anche canterine ambientate tra festival di fumetti e cosplayer. Struttura narrativa delirante, morale d'accatto e impianto estetico-scenografico coloratissimo e pop, come si conviene. Impossibile in ogni caso appassionarsi, ma anche solo prendere un minimo sul serio, le traversie personali e sentimentali di questi sciroccati. Che pena.
Voto: 3

THE CLOSET
Horror dalla Corea del Sud che inscena una delle più grandi paure dell'essere bambino: il mostro che c'è nell'armadio. Si parte da una famiglia - padre e figlia - con evento traumatico nel recente passato che cambia casa nella speranza di elaborare il lutto della moglie e madre. Avvenimenti strani, rumori di oggetti che si spostano, comportamenti sospetti della piccola già presagiscono il quadro di terrore. Il prosieguo è un dosaggio risaputo ma solido di elementi caratteristici: l'orrore vive davvero nell'armadio ma ha origini oscure e dolorose. Se narrativamente il film impagina la ricerca disperata del padre di liberare la figlia, anche con l'aiuto fondamentale di un simpatico esorcista, e non prima di essere passato dal giogo terribile della macchina del fango, tematicamente la realtà che progressivamente si manifesta si riferisce a un mondo di violenza ahinoi esistente. Un pretesto, si dirà, però ben inserito in una cornice congrua che fa del lavoro visivo e scenico il suo punto di forza: valida la schiera di "bambini cattivi" al soldo della bambina demoniaca, eccellente la location del regno dei morti. Buona inoltre la gestione della tensione e della tenuta, per un film che non eccede nel jumpscare ma preferisce evocare un male tremendamente (dis)umano.
Voto: 6

CHEERFUL WIND
Tra i primissimi titoli della carriera del grande Hou Hsiao-hsien, autore di capolavori quali Città dolente, Millennium Mambo e The Assassin, Cheerful Wind è una commedia romantica del 1981 restaurata su commissione del Ministero della Cultura Taiwanese al Taiwan Film Institute nel 2018. A colpire immediatamente è l'atmosfera leggera e spensierata, un'allegria già evocata dal titolo che però non riduce la consistenza filmica che contiene in nuce alcuni tratti della filosofia dell'autore taiwanese. Le tre location principali - l'ambiente marino dai toni freddi delle isole Pescadores, la caoticità urbana di Taipei, la placidità del paese di montagna dai colori caldi - già inquadrano tipici contrasti negli stili di vita che la protagonista, Hsiao Hsing-hui (interpretata dalla bellissima diva folk pop Fong Fei-Fei), non subisce passivamente. Al centro di tutto c'è la poetica dello sguardo: nelle scene iniziali la donna, assistente di regia e fotografa, durante le riprese di uno spot, guarda un uomo, il flautista Chin-tai, che a sua volta la guarda. Solo che l'uomo è cieco. Tornata in città, si incontrano nuovamente e a Chin-tai fanno un trapianto di cornea che gli ridarà la vista; però non potrà ancora vedere Hsiao Hsing-hui che nel frattempo è tornata nella casa dei genitori per sostituire il fratello nell'insegnamento alla scuola elementare. E nella ricerca di questo scambio di sguardi vibra un sentimento ancora indefinibile; ma ciò che rende nient'affatto invecchiato Cheerful Wind è la messa in quadro del carattere e della personalità di una donna forte e indipendente, che sa prendersi i suoi spazi e tempi e sa posare il proprio, di sguardo, non di rado tramite la macchina fotografica che porta sempre con sé. Stupiscono le punte di umorismo che danno vita a momenti molto divertenti (la lettura velocizzata de I fratelli Karamazov al gruppo di ciechi; la descrizione che il coinquilino di Chin-tai fa a quest'ultimo di Hsiao Hsing-hui e il ritratto che ne fa il già non vedente, non proprio fedelissimo; lo scambio di auguri in classe tra maestro e bambini), mentre il tema ricorrente di una canzone briosa sottolinea la leggerezza dell'operazione e il versante romantico ha una sua prevedibile, naturale conclusione.
Voto: 7

scena

Cheerful Wind (1981): scena


BETTER DAYS
Lo dic(hiar)o subito. I minuti finali paiono una postilla appiccicata su volere delle autorità, ai fini di corretta pedagogia e di rassicurante propaganda. Troppo, didascalico, indugiare. Ciò detto, non rovinano, non più di tanto, una visione magnifica che si insinua sottopelle e prosegue anche dopo, chissà ancora per quanto. Il tema è il bullismo scolastico, come per il sopracitato Victim(s), ma il modo di affrontarlo e inscenarlo è di ben altra caratura. Il suicidio nel cortile universitario di una studentessa vessata da bulle spietate e ferine apre le danze del cammino di tormento che dovrà affrontare la studiosa Chen Nian, già alle prese con i debiti di una madre irresponsabile e assente. Il contesto è quello scolastico, sullo sfondo gli esami (il temibile Gaokao) di un'importanza capitale nel Paese che decideranno il futuro degli studenti: le rigidità dell'ambiente, ciechi di fronte a palesi storture e atti ignobili, influenzano pesantemente le esistenze degli studenti al pari di una iper-competitività che alimenta i peggiori istinti. Il racconto passa per le brutali aggressioni che è costretta a subire Chen Nian e le conseguenti incapacità da parte delle forze di polizia di risolvere le questioni, fino al suo incontro con il ribelle Xiao Bei, inserito in un mondo di microcriminalità dal quale non può uscire. Quello che nasce come un rapporto di convenienza - Chen Nian lo "assume" quale protettore dalle cattive compagne che la perseguitano - si trasforma lentamente in un legame dalla natura complessa che raggiunge il suo apice nella parte finale, al precipitarsi di eventi che ne cementificano connessione e interdipendenza. Connotato da valori produttivi e tecnici elevati, Better Days, diretto da Eric Tsang (Soul Mate), è un mondo nel quale convivono mirabilmente violenza e romanticismo, attualità e severità, dolore e passione, impotenza e indeterminatezza; è un pugno in faccia che lascia ferite che non si rimarginano né si dimenticano; è lo sguardo posato con misura e grazia su uno scenario umano femminile composito e in formazione. Il rigore della messa in scena - pur con qualche concessione sul versante thrilling e a scene di facile impatto -, così come la sensibilità nel ritrarre e rappresentare forza e carattere e angosce di Chen Nian contribuiscono a rendere vivo e reale quel "senso di perdita" («used to be») che la stessa insegnerà alla sua classe. L'attrice protagonista, Zhou Dongyu (Under the Hawthorn Tree, Us and Them, il sopracitato Soul Mate), è dotata di uno sguardo che perfora letteralmente lo schermo.
Voto: 8,5

scena

Better Days (2019): scena

 

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