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Chiedimi se sono felice
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Spesso. Perché la mia felicità è potenzialmente sempre lì dietro, come una applicazione aperta ma in background. Forse agisce anche a mia insaputa, senza che io possa davvero scegliere di accedervi. Semplicemente ogni tanto mi rendo conto che si è attivata. Purtroppo non a comando, non quando ce ne sarebbe bisogno, non quando sono triste, non quando qualcuno che amo è triste e ci sarebbe proprio bisogno di quell'applicazione, che quando è attiva sembra abbia il potere di espandere il suo raggio ben oltre a quello del mio perimetro corporeo. Comunque sia, qualche sera fa ho avuto una piccola esperienza felice. Accompagnata da un film. Se no mica ve ne parlerei.

Milano, una fredda serata di febbraio, appuntamento alle 19 con mia figlia (no, non quella dell'altra volta, la più grande, 18 anni). La aspetto sotto ad un lampione in una via traversa di Corso Buenos Aires, stretto nella morsa di un freddo umido e in quella di una sciarpa destinata a proteggermi che invece rischia di soffocarmi per i troppi giri intorno al collo. Avevo pensato un po' a cosa avremmo potuto fare perché la serata aveva preso quella piega all'improvviso, c'era stato un cambiamento di programma. Mia figlia è a Milano per qualche mese, arrivata da poco. È la sua città di nascita ma ci ha passato solo tre anni della sua vita, i primi. Ha finito la scuola a giugno e ha deciso di prendersi un anno di attesa prima di iniziare l'università, un anno di esperimenti, di improvvisazione. Singolare che tra questi esperimenti abbia trovato posto la volontà di passare qualche tempo in questa città, alla ricerca di un legame, o di un semplice segnale, forse.

Volevo tanto che fosse una bella serata. Perché i segnali vanno anche aiutati, i segnali nascono da semi gettati, da terra coltivata e hanno la tendenza a mostrarsi più facilmente se lo sguardo non ha accumulato filtri o aspettative troppo elevate, che sempre filtri sono. Volevo che fosse una bella serata milanese e avevo pensato che era ora di andare a vedere un film italiano, anzi di più, era ora di andare a vedere esattamente un film milanese. Avevamo una sola ora prima dell'inizio del film per trovare un posto dove bere una birra e mangiare qualcosa, possibilmente una pizza, e per essere al cinema. Non molto tempo ed in più si stava iniziando a formare anche un'idea abbastanza precisa del tipo di pizza che volevamo mangiare: pasta sottile ma solida, cornicione spesso, forno a legna, non scherziamo. Dall'altra parte di questa visione c'era il film, a solo un'ora di distanza, spostamenti inclusi. Il film milanese per questa fredda serata milanese era Odio l'estate con Aldo, Giovanni e Giacomo, scelto anche grazie ad alcune recensioni qui su filmtv.it.

Google Maps diceva che la migliore pizza napoletana era dalla parte opposta rispetto alla nostra ideale direzione verso il cinema, non tanto lontana ma abbastanza per rischiare di convertire la successiva ora in una corsa in salita invece che in una gradevole discesa. É un attimo. Farsi divorare da una visione è un attimo, essere sopraffatti da una visione è un attimo. C'è un equilibrio precario tra il desiderio di realizzarla e il restarne vittima. Quindi no, mi sono opposto alle indicazioni di maps e abbiamo scelto di scendere placidamente lungo la via più breve verso il cinema, confidando che avremmo trovato qualcosa. E se non era la pizza dell'immaginario, pazienza. Avrebbe potuto essere anche un kebab, una panna cotta lussuriosa, o magari saremmo finiti a mangiare dei pop corn in busta. Pazienza, eh. E invece.

E invece a cento metri da quando abbiamo preso quella decisione, scendendo allegramente sulla cresta dell'onda, proprio lì sulla strada, c'era un bellissimo spazio, un ambiente caldo dalle suadenti luci soffuse, in fondo una meravigliosa cucina a vista e in fondo alla cucina, un forno a legna da cui stavano proprio tirando fuori un paio di pizze. Cornicione alto.

Un piccolo momento di infinitesima felicità, non per la pizza in sé, non per la semplice estetica del luogo, quanto per quella impagabile sensazione di essere connesso con il mondo, di funzionare in armonia con esso o di avere scelto la focale giusta per guardarlo in quel momento; perché uno zoom sulla pizza ci avrebbe esposto a possibili stress e cambi e ritardi e delusioni e se avessimo scelto un grandangolo avremmo rischiato di perdere il saldo contatto con il feel good movie milanese, avremmo rischiato di vederci come entità confuse, immobilizzate, sperse in un piano troppo ampio per noi. Quante volte il nostro benessere dipende dalla focale con cui guardiamo alla vita? Perché quell'attimo felice era già dentro alla nostra scelta come un germoglio, forse insieme a tanti altri germogli possibili, ma a far sbocciare proprio quello è stata una questione di focale, non il semplice caso.

Sull'onda di questa leggerezza mangiamo la nostra pizza, chiacchierando arriviamo a ridosso dell'ora del cinema, paghiamo in velocità, usciamo e percorriamo quell'ultimo chilometro con passo svelto, arriviamo al cinema un paio di minuti prima dell'inizio, prendiamo i biglietti, la sala è mezza piena (o mezza vuota, fate voi), prendiamo posto, inizia il film. Ed è un attimo rendersi conto che nella semplice storia di questi tre cretini - detto con immenso affetto perché io a quei tre gli voglio bene anche se mi hanno deluso molte volte - che con le loro famiglie al seguito, si ritrovano ad avere pagato ed affittato la stessa casa al mare e a dover condividere forzatamente lo spazio per tutto il tempo della loro agognata vacanza, in questa semplice storia, appunto, inizia a profilarsi, su una scala diversa, lo stesso tipo di scelte di focale che abbiamo sostenuto noi con la nostra pizza sulla strada del film, quel film.

Pur con quel pretesto narrativo un po' programmatico, con le sue differenze stereotipate tra i precisetti e i casinisti, tra la rigida lombarda stressata che si nutre solo di yoghurtini e la solare pugliese con la 'nduja sul suo ripiano di frigorifero, tra il dentista con il suv (e il suo scheletro nell'armadio) e il negoziante che perde spesso il filo del discorso e probabilmente anche l'attività al rientro dalle vacanze, il film riesce a trovare la focale con cui tenere sempre in quadro la propria direzione, il proprio finale. Senza zoommare troppo sugli sketch e sulle gag, senza rischiare di allargare troppo il campo ad una vera e propria morale a rischio retorica. Combattendo con la tentazione di cambiare strada, di imboccare quella che avrebbe, forse, garantito il successo più a breve termine ma anche rischiato di inficiare l'obiettivo lievemente più ambizioso: quello di essere un feel good movie che scivola sparato, allegro ma non del tutto spensierato, verso un momento di felicità, raggiunto in velocità, giocato con un ottimo senso del ritmo, necessario a far fiorire proprio quel germoglio, tra i vari possibili, senza tradire il genere al quale appartiene e senza speculare sull'alchimia e sulle potenzialità comiche del trio.

Una scelta perfetta di focale, insomma. Proprio quella che, a volte, quando lo sguardo rischia di guardare troppo lontano ci fa sentire persi e senza un nostro spazio nel mondo. Oppure al contrario, troppo focalizzati su noi stessi, con una macro puntata sul nostro ombelico, ridotti a macchietta, senza alcuna prospettiva più ampia. Essere felici, a volte, significa anche solo avere scelto l'obiettivo giusto per guardare il mondo in quel momento. O almeno quella porzione di strada, con quella specifica luce.
E quando succede è il momento di scattare la foto.
Clic.

Se pensate che il film sia una ciofeca ignobile, che io abbia preso un abbaglio, che abbia sbagliato clamorosamente focale con cui guardarlo, se invece a voi la pizza piace tutta fine o al taglio, spessa e unta, lo sapete: il posto in cui dirlo esiste ed è qui sotto.

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