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Regolamento CE 428/2009 - "DUAL USE" - Miracolo o abbaglio?
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Il 2016 fu un anno difficile, a livello personale. Quasi tragico, il semestre 30 gennaio-30 luglio. Mai creduto al motto "Ciò che non ti uccide, ti fortifica" e posso confermare che non ci credo neppure ora. Sta' di fatto che, in quel periodo strano, mi capita di andare spesso al cinema. Complice l'iniziativa Cinema 2days mi siedo in sala e per due ore il mondo pare confinato tra il buio dell'ambiente e i colori luminosi dello schermo. Ma la percezione di ciò che ci circonda è sempre mutuata dal nostro stato d'animo, non ci si scappa! Quindi, consapevole del mio intimo tumulto emotivo, sostenitrice della necessità di un minimo di onestà intellettuale, decido di non recensire nulla. Se non - e ho controllato per bene in film.tv. - opere già più o meno cariche di passate visioni.

Presa la distanza, si pensa di poter aver riacquistato un po' di lucidità. Chissà mai: io sono una nostalgica, e pure nel ricordo delle disgrazie mi struggo ! Ehheh. Comunque, in questa primavera piovosa e freddina mi ricapitano sotto gli occhi proprio i due film che più avevano colpito la mia fantasia, allora. E che, per prudenza, mi ero astenuta dal commentare, se non, in rapide battute: "Lo chiamavano Jeeg Robot" e "Veloce come il vento".

Mainetti e Rovere tentano entrambi una strada "alternativa" nel panorama italiano: ritornare al film di genere mantenendo ambientazioni locali; avvalersi di una scrittura solida e compatta più di stile anglosassone; cercare il consenso della critica attraverso il successo di pubblico: puntando dritti alle sale più che ai festival, evitando coinvolgimenti politici (e forse anche sociali) ma volendosi mantenere su registri pienamente "seri" a cavallo tra dramma e commedia, azione con un pizzico di ironia. Lontanissimi quindi dai lavori "d'autore", dai blockbusters a stampo comico-demenziale (dai cinepanettoni a tutta la schiera di aizzatori di folla televisivi prestati alla pellicola: da Zalone in giù) ma anche dagli incassoni tradizionalmente legati alla messinscena leggera sia essa intelligente, giovanilistica, social-progressista (Genovese, Brizzi, Moccia, Ozpetek, Leo, Papaleo e compagnia bella). Un programma di recupero del concetto di "entertainment" godibile e riflessivo, uno svecchiamento con rincorsa a modelli stranieri ma nel contempo un ritorno al passato glorioso della nostra cinematografia, quando l'Italia sapeva parlare sia di sé che del mondo circostante. E tutto questo, necessariamente, non in chiave indipendente! Bensì ancorati saldamente al sistema sia per produzione che per distribuzione.

Operazione non del tutto rischiosa, in fondo, la loro. Alle spalle un percorso di apprendistato e di guadagni alternativi televisivi e virtuali nonchè l'immancabile supporto di contribuzione statale: uno cullato dalle affettuose braccia di Fandango e l'altro da Sorgent SGR Spa, holding a capo della quale c'è papino. Non ci si confonda dunque, ed è bene ribadirlo: liberi e volenterosi nei propositi ma non indipendenti, non propriamente a basso costo, non outsider.

Non so se il troppo lungo ragionamento mi si sia attorcigliato sul cervello ed adesso abbia fatto i nodi, ma ho perso il filo! No, ok, cerco di riacchiapparlo: 6 giugno 2018, prendo due piccioni con una fava: un post e recensione multipla. Perché molto di ciò che è valido per "Veloce come il vento" potrebbe esserlo anche per "Lo chiamavano Jeeg Robot". Che siano entrambi prodotti Dual Use? Venduti come innoqui pezzi di latta informi ed invece componenti per reattore nucleare? Poverelli o ricchi? Miracolo o abbaglio?

Senza troppe pretese, mi diverto a dire la mia

1) sceneggiatura: serrata nel ritmo, compatta nella sostanza, più o meno sorprendente (de gustibus non disputandum est) ma con occasionali incoerenze sul serio imbarazzanti! I due fratelli nella campagna emiliana che non si sa di che vivano (e mai ci sarà spiegato) e sfrecciano per gare clandestine anche in centro città dove non osano i posti di blocco e le volanti (ma quando mai?) equivalgono allo sfigato che si butta nella mischia come se fosse un supereroe ma in realtà non lo sa ancora di esserlo (stupido?), che poi se ne va tranquillo in scooter per la città dopo che la tv l'ha ripreso sapendo di averla fatta grossa al violento boss del quartiere. Insomma, come la gag di malavitosi napoletani che ammazza una ragazza per sbaglio e non si preoccupa di far fuori pure di quella l'amico (potenziale testimone scomodo) o il giovane che sul luogo di un incidente stradale si vede chiedere da uno sconosciuto: "Mi presti il motorino" e senza battere ciglio replica: "Ok, eccotelo". Anche nella sospensione dell'incredulità ci vuole un certo metodo, suvvia! Un discorso a parte va dedicato alla delineazione dei personaggi (ma preferisco farlo alla voce attori). A cui sarebbe da collegare la scrittura dei dialoghi basata sullle strabordanti performances degli interpreti e dove la caratterizzazione geografica e sociale è quasi pedante nell'utilizzo di dialetto/inflessione/gergo. Soprattutto per "Lo chiamavano Jeeg Robot" si sarebbero dovuti apporre sottotitoli-fastidiosa la certezza per cui il romanesco stretto debba essere compreso Urbi et Orbi

2) Regia: in entrambi i casi, convenzionale. La bontà di entrambi i lavori stà nell'idea alla base del progetto e nell'impegno dei due registi di portarla avanti, piuttosto che nella effettiva realizzazione. Almeno da un punto di vista strettamente cinematografico. Se in Rovere la presenza degli effetti speciali oscura il lavoro dietro la macchina da presa, e questo è comprensibile e persino auspicabile, in Mainetti impera un gusto garroniano (gomorriano) miscelato al tarantinismo e pure a certe trovate ironico-kitch dei fratelli Cohen - l'effetto estetico è saccente e banale

3) Interpreti: la scelta e direzione degli attori risulta il vero plus. Che Santamaria, Marinelli ed Accorsi siano in grado di recitare, lo sapevamo tutti! Coinvolti nei rispettivi progetti, si calano alla perfezione nel mood costruito ad hoc (Accorsi bolognese gira in Emilia/Santamaria e Marinelli entrambi romani girano a Roma) ed offrono prestazioni di alto livello. Ma sono le due ragazze la piacevole sorpresa! Esordienti sconosciute Ilenia Pastorelli e Matilda De Angelis, due presenze convincenti davanti alla mdp. La prima, evidentemente, non è un'attrice. E' un male? Assolutamente no! Dizione terrificante, recitazione melodrammatica e declamatoria, sguardo che non c'entra l'obiettivo, come se ci fosse il gobbo dietro! Talmente senza senso che è lei ad essere Alessia, o Alessia lei. Non importa la bravura, ma l'essere "giusta" per quella cosa lì! E lei lo è. Matilda De Angelis pure non ha una specifica preparazione, ma guardandola ed ascoltandola, pare attrice consolidata: forse è la giovanissima età a conferirle quella freschezza e spudoratezza tipica dei bambini/ragazzini, forse l'agio evidente con il resto della troupe che asseconda il suo approccio viscerale che si accosta alla perfezione con la professionalità di Accorsi. Se dunque nulla c'è da eccepire sugli interpreti, qualche parola in più è bene spenderla per la scrittura dei personaggi. Rovere gioca per sottrazione e opta per protagonista e coprotagonista: Loris e Giulia. Fratello e sorella. Tutti gli altri in secondo piano. Il film risulta una dialettica continua fra due ed il "cattivo" è tanto insulso quanto piccoletto ed solo funzionale al racconto. Mainetti, per ovvie ragioni di plot, necessita di una rete più ampia. Ma commette l'errore mortale di dare troppo spazio all'antagonista: sia per minutaggio che per caratterizzazione. Il risultato è squilibrato ed incoerente: il protagonista scompare in una interpretazione minimalista e sfumata, e così la co-protagonista (le scene fra Santamaria e Pastorelli le migliori): bene e male/vittima e carnefice/buio e luce/legalità ed illegalità/amore ed odio/normalità e diversità tutto si sfuma (bellissima la scena del ricordo dello stupro a cui segue, dopo pochi minuti, il momento di attrazione che si trasforma in una sorta di stupro; dove non c'è confine fra la "punizione" di questa ammiccante Lolita-principessa e l'affetto sincero di uno il cui unico rapporto con le donne sta nel guardare film porno); l'antagonista invece è monotematico e monocolore, al punto che lo spettatore, persi correttamente i punti di riferimento con Enzo e Alessia, li ritrova tutti in Fabio. La performance fisica, strabordante, ironica di Marinelli peggiora la situazione, facendo risultare il cattivo (anzi cattivissimo) quasi simpatico.

4) Fotografia: mi sono piaciuta in entrambi i film perché funzionale alla trama e alla delineazione di una "atmosfera"

5) Montaggio: anche questo mi è parso ben fatto riuscendo a conferire il ritmo giusto alle immagini. Sia "Veloce come il vento" che "Lo chiamavano Jeeg Robot" hanno un impatto narrativo aggressivo, a tratti adrenalinico. Le componenti tecniche è evidente che siano molto importanti (anche a supporto degli effetti speciali).

5) Musiche e sonoro: senza infamia né lode per Mainetti (a mio avviso avrebbe dovuto osare molto di più proprio perché l'ispirazione è alla cinematografia di genere, al fumetto, al cartone animato, a tutta una cultura pop anni '70 ed '80) sono invece un aspetto fondamentale nel lavoro di Rovere. D'altronde non poteva essere diversamente, considerando l'ambientazione nel circuito corse. Visto sul grande schermo e con la giusta apparecchiatura di supporto, "Veloce come il vento" ha un impatto audio non indifferente sullo spettatore. Quello che risulta originale è il "rumore" fine a sé stesso quando invece, nel cinema italiano, si ascolta quasi sempre "musica". A tal proposito mi è venuta in mente una similitudine (o contrapposizione) con la scena finale di "Youth" dove la canzone semplice invade lo spazio personale degli astanti con una violenza incredibile, mangiandosi in un sol boccone qualsiasi altro aspetto cinematografico. Creando un effetto tanto disturbante quanto melodico che ancora oggi non mi so spiegare (ed infatti il film non l'ho recensito per ossequio al buon Sorrentino che credo non fosse pienamente in sé quando lo diresse). Operazione vicina nella tecnica, ma lontanissima nel significato, quella del ridondante rombo di motori di "Veloce come il vento" che butta addosso allo spettatore in maniera molesta ma efficace polvere, sudore, olio ed elettricità

6) Produzione, budget, distribuzione ed incassi. "Lo chiamavano Jeeg Robot" è costato ufficialmente 1.700.000 euro e ne ha incassati 5.900.000 euro. Come detto, i fondi alla base sono arrivati da fondi statali, papà Mainetti e un paio di privati (la ripresa sul sacco dell'Ikea ben riconoscibile sarà stata casuale?).Distribuzione Lucky Red. Presentato a fine 2015, uscito in poche sale a febbraio 2016, ha ottenuto buoni ma non eccellenti risultati suscitando comunque un certo passaparola. La vittoria ai David di Donatello fa sì che il film ri-esca il 21 aprile 2016 e lì faccia, più o meno, il botto finale. "Veloce come il vento" è prodotto da Fandango e sorretto dall'interessamento diretto di Accorsi (appassionato di corse). Costato molto, ma molto meno di "Lo chiamavano Jeeg Robot" (non ci sono dati ufficiali ma pare con meno della metà) incassa complessivamente circa 2.500.000 euro. Uscito con 300 copie, il film è fortemente penalizzato dalla data: 7 aprile 2016. Troppo tardi per concorrere ai David, vincerà premi nel 2017, ma a quel punto veramente troppo tardi per sfruttare la scia.

Il dual use è scongiurato: né miracolo né abbaglio. Solo, un cinema dignitoso. A tratti forse persino coraggioso, almeno negli intenti.

Con una analisi personale di fondo: il successo di "Veloce come il vento" commissurato al valore. Operazione genuina, senza presunzione. Per me, tre stelle e mezzo.

"Lo chiamavano Jeeg Robot" un grande equivoco: originale ma non indipendente. In fondo, molto, ma molto! radical chic. Voto: due stelle e mezzo 

 

 

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