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OLTRECONFINE 24: ANTEPRIME DALLA FRANCIA
di alan smithee ultimo aggiornamento
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locandina francese

The Grief of Others (2015): locandina francese

"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala." 

 

-LA NUOVA TRASPOSIZIONE ANGLOSASSONE DELLO SPLENDIDO ROMANZO DI FLAUBERT;

-JULIE DELPY, SEMPRE PIU' REGISTA, SEMPRE PIU' BRILLANTE;  

-UN REGISTA INDIPENDENTE AMERICANO SEMPRE PIU' CONVINCENTE;

-TOBY MAGUIRE, ATTORE DALLO SGUARDO CHE FA LA DIFFERENZA;

-IL CINEMA AFRICANO CHE SA RACCONTARE CON PUREZZA E SEMPLICITA'.


Al quesito se fosse necessaria una ennesima trasposizione del celebre, meraviglioso romando di Flaubert, la risposta non può che tendere al diniego. Tuttavia se, dopo almeno tre versioni ufficiali per il cinema (quella di Renoir del ’33, quella americana del ’49 a cura di Vincente Minnelli, e quella più recente di Chabrol del ’90 – ma ne esiste anche una versione tedesca del ’69 con la Fenech (?!?)), si cerca di fare un raffronto di come i vari cineasti hanno inteso affrontare il racconto, prima di tutto non si può fare a meno di notare come il cinema, di fronte a capolavori assoluti della letteratura, non possa fare a meno che intervenire sotto forma di riduzione, essendo impossibile, per esigenze di tempo e di complessità di narrazione, comprendere e trasporre ogni singola particolarità ed eccezionalità del racconto.

Detto ciò è interessante notare come ogni autore tragga dalla propria sensibilità o da ciò che più ritiene favorevole al proprio stile di racconto, solo alcuni spunti che compongono il romanzo, tralasciandone altri che invece appaiono magari in altre rappresentazioni.

La versione della giovane regista Sophie Barthes, al suo secondo lungometraggio, trova nella giovinezza e nella carnalità dei suoi giovani protagonisti la via per discostarsi ad esempio dalla traduzione cinematografica di Chabrol, che pur vantando una meravigliosa ma già quarantenne Isabelle Huppert, si contornava di un cast di attori maturi nel ruolo di mariti ed amanti che attorniavano il vortice senza uscita in cui si incanalava la travagliata protagonista. Qui invece Mia Wasikowska (impegnatissima attualmente al cinema, spesso in ruoli in costume) trasuda la sensualità, quella appartenente ad una giovinezza sottilmente ed inevitabilmente esuberante che desidera esprimersi e trovare una appropriata collocazione sociale che la valorizzi, e che molto presto intende andare oltre il matrimonio di convenienza in cui solo per poco tempo la donna riuscì ad identificarsi e a credere.

In questo stesso senso gli amanti della donna, fisicamente appropriati ad essa per sensualità e prestanza fisica nella persona di Ezra Miller e Logan Marshall-Green, contribuiscono a rendere questa ennesima versione come un interessante celebrazione della sensualità giovanile che si aggiunge all’arrivismo senza scrupoli che porta alla follia e alla rovina senza ritorno.

Efficaci ed opportuni appaiono inoltre Paul Giamatti nella parte dell’insinuante tentacolare farmacista, mente Rhys Ifans nella parte del mellifluo mercante-usuraio viscido e freddo come un rettile da giudizio universale.

VOTO ***


FESTIVAL DI VENEZIA 2015 - GIORNATE DEGLI AUTORI

Mai fidarsi dei timidi e delle anime chete. Lo impara a proprie spese e danni psico-fisici un mite informatico in vacanza nel sud della Francia che, invaghitosi della bella e bionda quarantacinquenne Violette, decide di seguirla fino a Parigi e di convivere nel suo appartamento.

Senza contare che in quella casa vive, anzi regna l’apparentemente timido ed affettuoso figlio diciannovenne Lolo, quel personaggino simpatico che i divertenti titoli di inizio ci presentano sotto forma di disegna animato nel suo fisico segaligno e perennemente in mutande.

Ragazzo possessivo e per nulla propenso a lasciare la madre in balia del primo capitato, il ragazzo, tutt’altro che un’acqua cheta come potrebbe erroneamente apparire, diviene autore di un piano diabolico architettato al fine di devastare per sempre quell’alchimia forte e apparentemente “a prova di bomba” che pareva legare i due nuovi innamorati.

Più passa il tempo più la sicurezza e la verve della celebre ed ammirata attrice Julie Delpy si affina ed il film, ennesima variazione del complesso di Edipo, diviene una commedia brillante e spiritosa che non rifugge argomentazioni di base anche serie o su cui riflettere.

Perfetta l’alchimia che traspare tra lei, Julie, e l’irresistibile verve mimica del comico Dany Boon, ma è il finto tenero e disarmante Vincent Lacoste (già visto ed apprezzato in Hippocrate e Eden, oltre che in Diary of a Chambermaid) che ruba la scena a tutti, sempre perennemente e teneramente smutandato e stropicciato, sguardo confuso e perso nel vuoto, labbro impercettibilmente socchiuso in un atteggiamento di perenne stupore e (falsa) meraviglia.

Notevole come sempre, anche se in un ruolo di contorno, la simpatica ed avvenente Karin Viard.

Il film è stato presentato al Festival di Venezia 2015, nella sezione Giornate degli autori, ed è uscito nelle sale francesi con un certo successo in questi giorni.

VOTO ***

THE GRIEF OF OTHERS

I segreti e le dure verità non dette creano in generale, ed in particolare all’interno della famiglia Ryries, situazioni di incertezza, errori di comportamento, disagio e malesseri psico-fisici che non possono che alterare equilibri apparentemente dati per scontati.

Ricky è una madre quarantenne di due figli in qualche modo problematici: il maschio è sovrappeso e diviene oggetto di atteggiamenti malevoli e prepotenti da parte dei compagni di scuola. La bambina, Biscuit, si comporta in modo eccentrico, una volta cadendo nel fiume Hudson, l’altra volta appiccando un fuoco in bagno.

Veniamo intanto a sapere che poco prima Ricky ha perso un figlio a pochi giorni dalla nascita, dopo che ha celato per mesi le reali condizioni di salute del feto al marito per timore che questi la costringesse ad abortire. Come se non bastasse la figlia ventenne di primo letto di John si presenta a casa della coppia, chiedendo asilo fino al momento del parto del primo figlio, concepito da padre ignoto. Un ulteriore problema a quest'ultima gravidanza da una parte unirà due donne altrimenti tendenzialmente se non ostili, almeno fredde una con l’altra, mentre creerà voragini interiori tra gli altri membri della famiglia, ognuno in lotta frenetica contro le proprie paure, i propri dubbi esistenziali e le tensioni legate ai rispettivi traguardi di vita.

Dopo In the family l’interessante regista americano indipendente, ma di chiare origini asiatiche Patrick Wang, continua il suo percorso – quasi una via Crucis laicissima e lucidissima - nei labirinti tortuosi ed inestricabili dei rapporti familiari, quando la vita ci devasta con le amarezze ed i dolori di fatti inaspettati che ci cambiano l’esistenza da un momento all’altro.

La scena finale dell’abbandono temporaneo del tetto coniugale per celebrare un funerale privato al nascituro morto poco dopo, è insieme struggente e tecnicamente efficacissima a rappresentare la rinascita di un rapporto familiare, partendo da un lutto, da una perdita, per unire le forze ed affrontare, uniti e solidali, un percorso sempre in salita e non certo privo di ulteriori ingombranti ostacoli. Un pessimismo che non riesce a sfaldarsi di fronte ad un orizzonte che non promette molti sprazzi di sereno, ma la consapevolezza di non essere soli ad affrontare la tormenta può essere una adeguata ed efficace ancora di salvezza.

VOTO ***1/2


Edward Zwick (Glory, Vento di passioni, Attacco al potere, L’ultimo samurai, Defiance ed altro ancora) non è mai stato, a mio giudizio, una garanzia di freschezza d’emozioni e di purezza di sguardo cinematografico; al massimo, da affidabile mestierante e lodevole esecutore di ordini, forniva la sicurezza di un prodotto finito a medio-grande budget, ravvivato quasi sempre dal richiamo di star di prima scelta e da una certa roboante costruzione scenografica tipica del “filmone” da spazi aperti e grande azione.

Con questo interessante, accurato e molto teso Pawn Sacrifice, storia vera della sfida tra un ragazzo prodigio degli a scacchi americano ma di origini russe, ed il suo più illustre rivale russo nell’ameno e neutrale territorio islandese, cambiamo completamente, seppur solo temporaneamente, opinione su di lui.

La storia inizia negli anni ’60, in pieno clima ostile di guerra fredda tra le due superpotenze nucleari: atmosfera che da una parte accentua l’antagonismo della sfida, facendo divenire la contesa come la conferma della supremazia di una potenza sull’altre, mentre dall’altro accrescendo le fobie che già riempivano la mente brillante, ma anche un po’ labile, del giovane scacchista, di origini ebree e russe, e nonostante ciò fieramente oppositore dell’una e degli altri.

 

Il film ci racconta della nascita di un mito, della sua crescita a suon di sfide verso avversari sempre più quotati, fino a raggiungere le potenzialità di un leader della disciplina….e a raggiungere il traguardo della sfida al più grande campione di tutti i tempi, l’affascinante e riveritissimo Boris Spassky. Lo scontro tra le due menti eccelse è diretto con gran perizia, come tutto il film in generale, che alterna momenti di narrazione a finti filmati d’epoca con estrema perizia. Lo scontro finale è tesissimo e si complica per il comportamento bizzarro e le fisime maniacali che inizia di punto in bianco ad assumere il giovane campione americano, affetto sempre più – colpevole lo stress e la tensione – da una forma maniacale che lo spinge a sospettare di essere oggetto di una congiura ordita dal contro spionaggio e dai servizi segreti.

La regia accurata ed efficace non è il solo merito del film, che trova nello sguardo folle ed ispirato diel grandissimo Tobey Maguire, l’interprete perfetto per rendere l’eccentricità folle e geniale di un personaggio realmente esistito. Il suo sguardo nel terrore, l'occhio sgranato che traduce lucida follia, la concentrazione turbata dal minimo rumore o cenno immaginato, escono dalla mimica di Maguire, dal suo volto interessante e un pò butterato, in modo straordinario, dando alla sua performance un tocco fondamentale che diventa uno dei pregi più evidenti della pellicola.

Lo coadiuva egregiamente un Liev Schreiber affascinante e pericoloso come si conviene, che si dimostra molto più leale e corretto di quanto ognuno potesse umanamente ipotizzare.

Per Maguire la nomination all’Oscar sarebbe (stata, visto che il film è datato 2014) opportuna.

VOTO ****


FESTIVAL DI CANNES 2015 - UN CERTAIN REGARD

Il candore e la semplicità quieta, senza fronzoli ed espedienti narrativi del racconto tipico del cinema africano, trova il modo migliore per autocelebrarsi ed esaltare i tratti salienti della sua linearità pressoché elementare, in questa bella storia d'amore tra un ragazzo disadattato dalle circostanze drammatiche legate agli elementi della sua famiglia, ed il suo animale del cuore: una pecora dallo splendido pelo fulvo, che da anni dà nutrimento a lui e a quel che resta della sua famiglia, ovvero suo padre. L'adorata madre del ragazzo infatti è morta di malattia ed Ephraim, giovane e smilzo etiope sui dodici anni perennemente in stivali di gommsa gialli, viene portato dal padre presso alcuni parenti affiché costoro lo allevino mentre lui si trasferisce in città a cercarsi un lavoro, dopo che l'arsura dei mesi passati ha costretto molti, tra cui loro, ad abbandonare le terre coltivate.

La vita presso i parenti, nonostante le cure amorevoli delle donne di casa, è dura ed il ragazzo, piuttosto a disagio a lavorare nei campi, desta scalpore per la sua inusuale bravura a cucinare. Peccato che tale mansione sia per tradizione orgogliosamente  riservata alle donne, e pertanto il ragazzo venga denigrato o deriso per questa sua inconsueta attitudine.

Un dono, quello dell'arte gastronomica, ereditato dalla madre, come riconoscono le zie, che di nascosto lasciano che il ragazzo si occupi di preparare da mangiare. Quando Ephraim scopre che suo zio ha intenzione di sacrificare la sua adorata pecora per le imminenti estività religiose, il ragazzo si persuade che deve lasciare quel posto al più presto, e fuggire in autobus fino verso la città ove ha trovato rifugio il padre.

Per guadagnarsi i soldi ricorrerà ad ogni stratagemma, anche quello di preparare una antica specialità della madre da vendere al mercato, pur di salvare il suo adorato animale. In questo suo proposito segreto, verrà aiutato dalla cugina più grande, figlia di primo letto di sua zia un tempo vedova.

Lamb è innanzi tutto una storia d'amore e di rispetto tra uomini ed animali, ma anche un ritratto realistico di un'Africa visivamente maestosa nelle sue vedute naturali, nelle sue vallate erbose costellate da rocce affioranti, nelle sue montagne aguzze, nelle sue foreste lussureggianti: ma anche un'Africa che soffre la sete e la carestia, costringendo le persone a migrare per sopravvivere, e segnando le basi per un drammatico sradicamento che il ragazzo deve subire dopo il già grande shock della perdita della adorata madre.

Lamb è un film semplice ma onesto che rifugge gli artifici narrativi complicati anche quando parla di ricordi e sogni di tempi migliori, quelli di quando la famiglia era tutta al completo a scherzare e volersi bene sui prati. Un' opera schietta che riflette lucidamente su tematiche universali come l'amore e l'attaccamento alla propria famiglia, ma anche il rispetto, contraccambiato, e la tenerezza verso gli anmali, la voglia e la necessità di tornare a vivere in equilibrio con la propria terra e le proprie origini, davanti ad un palcoscenico naturale che è molto più che un semplice sfondo dalla bellezza sontuosa: è il cuore pulsante dell'Afrca e il suo modo lussureggiante e fisico di presentarsi allo sguardo altrui.  

VOTO ***1/2

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