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Cineasti Invisibili (2) - James Benning
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  • Da oggi, noi utenti myHusky e EightAndHalf, con la collaborazione di lorebalda, pubblicheremo dei resoconti biografici e filmografici di alcuni "cineasti invisibili" poco "di moda" che si distaccano dai gusti predominanti e vanno a nutrire un cinema di nicchia che meriterebbe ben altra estensione. Un approccio semplice a grandi registi poco conosciuti: altro che salotti, il cinema è di tutti.
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  • «Mettersi in discussione è una parte importante della vita. Ho una grande fiducia nei miei film, perché credo che possano spingere lo spettatore a mettersi in discussione; allo stesso tempo, dando allo spettatore la possibilità di vivere un'esperienza cinematografica totalmente diversa da quelle a cui è abituato, sono fortemente convinto che si possano ottenere risposte sorprendenti.»
  • (James Benning)

 

  • James Benning

    Stemple Pass (2012): James Benning

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  • James Benning, classe 1942, è uno dei principali autori indipendenti del panorama cinematografico americano. Durante la sua lunga carriera ha realizzato una notevole quantità di lungometraggi e cortometraggi, dal carattere principalmente concettuale. La sua opera, definita da egli stesso "narrativa sperimentale", guarda al cinema come ad un campo libero attraverso il quale poter inventare e praticare una nuova grammatica dello sguardo.
  • Interminabili inquadrature di paesaggio, di architetture e di volti umani: è il ritorno al mondo delle percezioni, delle esperienze sensoriali.
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  • James Benning nasce nel 1942 a Milwaukee, da una famiglia di immigrati tedeschi. Il padre lavora come designer autodidatta nell'edilizia (dopo una carriera nel mondo dell'industria pesante), mentre la madre si occupa principalmente della crescita dei due figli.
  • Dopo il baseball e gli studi in matematica, Benning comincia ad avvicinarsi al mondo del cinema e, dopo aver ottenuto l'MFA (Master of Fine Arts) dall'Università del Wisconsin (a 33 anni), comincia ad insegnare e a girare i suoi primi cortometraggi. L'esordio sulla lunga durata si concretizza nel 1977, con gli 84 minuti di 11x14.
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  • «Quando ho realizzato 11x14 ho pensato di aver finalmente qualcosa da dire: credo sia stato quello il momento in cui sono realmente diventato un regista.»
  • (James Benning)
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  • Già dal primo lungometraggio, il regista statunitense sembra mostrare tutta la diversità e la radicalità del suo cinema: lunghe inquadrature (fisse o in leggero movimento) seguono una serie di personaggi e i loro spostamenti. Ma non c'è una vera e propria trama, un percorso distinguibile o facilmente identificabile: «Volevo sviluppare, piuttosto che contrapporre immagini diverse in un qualche modo particolare, una lettura non lineare del film nella sua interezza, quella che io chiamo lo "spazio sferico". Io cerco di introdurre un buon numero di suggestioni visive e uditive che si ripetono in inquadrature anche molto distanti fra di loro nel film.» L'immagine, in 11x14, gioca con gli strumenti essenziali del cinema e, attraverso la sua apparente semplicità, permette allo spettatore di interrogarsi ripetutamente. Ed è proprio attraverso la rottura e la costituzione di nuovi schemi e di nuove linee generali della narrazione cinematografica che lo sguardo può iniziare la sua partecipazione attiva («costruire una narrativa che possa distruggere una narrativa già esistente").
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  • (11x14, 1977)
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  • Al di là del reale, il cinema di Benning si propone come un’esperienza sempre nuova e distinguibile. La ricercatezza nella composizione del quadro rimarca, infatti, una precisa presa di posizione, un punto di vista che si evince da ogni inquadratura e da ogni fotogramma: «Io non sto cercando di ricreare la realtà; sto provando piuttosto a realizzare un’esperienza per te.»
  • Questo concetto, fondamentale per poter comprendere appieno l'opera del cineasta americano, è espresso in maniera particolarmente significativa nella trilogia di One Way Boogie Woogie, inaugurata nel 1977 e conclusasi nel 2012. Si tratta di tre film, tre visuali sul mondo che invitano lo spettatore a soffermarsi sui dettagli e sulla composizione (mai casuale) dell'inquadratura. In particolare con i primi due capitoli, One Way Boogie Woogie (1977) e 27 Years Later (2005), si ritorna, con le stesse identiche inquadrature, nell’area industriale di Milwaukee, per osservare i cambiamenti e per verificare, attraverso lo sguardo, gli effetti più o meno corrosivi del tempo. È evidente, a questo punto, come l'opera di Benning non guardi tanto alla realtà, ma piuttosto ad un serie di sfaccettature, di angoli capaci di rendere l'esperienza totalmente personale e sperimentabile: «I miei film possono essere visti da molti punti di vista - politici, sociali o estetici. Così, ognuno nel pubblico può provare un diverso tipo di esperienza.»
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  • (One Way Boogie Woogie, 2012)
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  • L'utilizzo dei vari elementi cinematografici offre poi la possibilità allo spettatore di addentrarsi nei meandri più puri del cinema e di coglierne, così, la vera autenticità. Non stupisce quindi una certa associazione di immagini e di sonoro o un particolare utilizzo del fuori campo: tutto è stato pensato nel minimo dettaglio, per dimostrare che anche dietro una semplice e statica inquadratura si può nascondere molto di più di quanto si è normalmente abituati a vedere. La variabile temporale, a questo proposito, svolge una funzione determinante. La persistenza della durata, una vera e propria "temporalizzazione dello spazio", permette infatti di soffermarsi sulla composizione del quadro e, allo stesso momento, sul significato di ciò che si sta osservando e che lentamente si sta trasformando in memoria: «Il presente ci appare in maniera istantanea e immediatamente diventa passato. Per questo motivo tutto ciò che sperimentiamo può essere considerato solo un ricordo.»
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  • (One Way Boogie Woogie, 1977 & 27 Years Later, 2005)
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  • A partire dagli anni '80, il cinema di Benning si arricchisce di nuove tematiche e, avvicinandosi in parte al documentario, comincia ad esplorare l'America mediante le lenti della storia, della memoria e della morte.
  • Nel 1986 esce Landscape Suicide, uno dei lungometraggi più accessibili del cineasta statunitense che, attraverso il resoconto di due omicidi, indaga (e si interroga) sulla relazione che viene ad instaurarsi tra il crimine e il paesaggio. Le confessioni di Bernadette Prott e Ed Gein si incrociano, come di consueto, con una serie di inquadrature tipicamente benninghiane, ma questa volta ad assumere particolare importanza sono le notevoli interpretazioni e la conseguente scelta di soffermarsi sui motivi psicologici che hanno spinto i due assassini a commettere i loro atti.
  • L'operazione è circolare: se da un lato l'oggetto della narrazione (il crimine) viene contestualizzato nello spazio e nel tempo (e non solo), dall'altro il landscape si carica, in maniera ancora più esplicita rispetto al passato, di significati, mostrando ancora una volta le infinite possibilità del linguaggio cinematografico.
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  • Le flebili linee narrative sono però destinate a scomparire nell'ultima fase della produzione benninghiana. Dopo Utopia (1998) infatti, il cinema del regista americano comincia a spogliarsi lentamente di tutte le sue sovrastrutture e, abbandonando ogni sorta di appiglio convenzionale, sceglie di mostrarsi in tutta la sua purezza e in tutta la sua libertà.
  • Il nuovo corso guarda alla contemplazione e alla percezione, allontanando sempre di più l'idea di fruizione consumistica che caratterizza i nostri giorni. Benning chiede al suo pubblico di sforzarsi e di osservare in profondità, per poter cogliere sfumature e differenze altrimenti invisibili all'occhio. Solo in questo modo una semplice e statica inquadratura sarà in grado di comunicare tutte le sue complessità. E così, in Ten Skies (2004), una delle opere più significative ed estreme del maestro statunitense, siamo invitati ad osservare il cielo attraverso una serie di dieci variazioni.
  • Le lunghe riprese della pellicola, dipingendo numerosi landscape celesti, costringono lo sguardo dello spettatore a massimizzare la comprensione (e l'interpretazione) all'interno del quadro: nasce così un nuovo approccio alla visione, improntato totalmente sull'esperienza individuale. E poco importa se, ogni tanto, l'attenzione diminuisce: la componente della distrazione, a detta dell'autore stesso, può risultare incentivante: «Non mi importa se a volte, durante la visione, pensi alla lavatrice che dovrai fare la sera. Facendo così, infatti, si spera che gli spettatori giungano alle proprie conclusioni e si focalizzino sulla propria esperienza.»
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  • (Ten Skies, 2004)
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  • Al di là di alcune variazioni, le ultime opere di James Benning possono essere inserite all'interno di un continuum concettuale iniziato proprio con lo stravolgimento cinematografico di Ten Skies.
  • Nel 2009, il primo film in HD del cineasta americano, Ruhr, riporta l'attenzione sulla vita e sulle attività delle zone industriali. La mdp (ora totalmente statica) interroga ancora una volta lo spettatore e, nella seconda parte della pellicola, lo invita a cogliere le sfumature dell'imbrunire sulla torre Schwelgern, ripetutamente avvolta dal fumo.
  • Con Easy Rider (2012) si ritorna invece in America, alla scoperta dei luoghi del ben più celebre lungometraggio di Dennis Hopper. Lo sguardo passa attraverso un insolito remake che, destrutturando la forma dell'opera originale, lascia spazio alla consueta organizzazione formale e, naturalmente, alla contemplazione visiva.
  • Ma è con Nightfall (2011) e BNSF (2013) che si arriva ad un'ulteriore livello di estremizzazione concettuale. La pellicola si riduce ad un'unica inquadratura (una foresta della Sierra Nevada e una stazione nel deserto) che mostra il suo unico mutamento nel cambio di luminosità tra il giorno e la notte (fatta esclusione del treno di BNSF). È l'ultima sfida, l'ultimo invito del regista statunitense a raccogliere la bellezza e la meraviglia che si nasconde nella semplicità (apparente) di un'immagine statica nello spazio e nel tempo.
  • Un discorso analogo si può fare anche per gli "studi" sui ritratti portati avanti dal cinesta negli ultimi anni. È giusto citare, a questo proposito, almeno due titoli. Il primo, Two Faces, corto del 2010 (ma contenente materiale del 1973), si focalizza su due primissimi piani (per un totale di 13 minuti ciascuno), cogliendone i dettagli e le tonalità luminose: ancora una volta, siamo invitati ad un'osservazione più attenta e consapevole. Il secondo invece, Twenty Cigarettes (2011) pone al centro dell'attenzione 20 primi piani di fumatori. Si tratta di una vera e propria collezione di volti, distinguibili e sperimentabili attraverso i gesti e le diverse espressioni: un'ulteriore conferma della sottile, ma al tempo stesso complessa grammatica messa in piedi da James Benning nel corso della sua lunga carriera. 
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