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Father and Son

Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film

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La recensione su Father and Son

di logos
8 stelle

La regia e la sceneggiatura di Koreeda in questo film affronta una tematica spinosa, lo scambio dei figli subito da due famiglie che vengono a conoscenza del fatto dopo lunghi 6 anni.

Un film dunque sul rapporto tra due famiglie diverse, l'una di ceto medio alto e benestante mentre l'altra di ceto medio basso con qualche diffcoltà economica, con il loro reciproco dramma, che avrebbe potuto dare vita a una pellicola movimenta, sollevando questioni non solo morali, ma anche sociali, giudiziarie, con ricadute negative in entrambe le famiglie, magari attraverso un loro scontro fatto di azioni in escalation, fino ad arrivare al debordante spettacolare, senza tregua.

E invece nulla di tutto questo, la tematica dello scambio dei figli, per quanto sia centrale nell’opera, diventa anche il pretesto per una meditazione sul senso del tempo esistenziale, sul ritmo temporale delle relazioni umane, che vanno rispettate per quello che sono.

 

A dispetto del tono enfatico, colorito da azioni spettacolari e debordanti, Koreeda sceglie dunque un’altra operazione, se vogliamo ancora più complessa, quella dell’introspezione, concentrando la sua attenzione soprattutto sulla famiglia più agiata, il cui padre, tutto preso nella sua professione di architetto, cerca di dirigere la famiglia ad arte, all’insegna della disciplina e dell’intraprendenza, inculcando nel figlio Keita i valori dell’autonomia, dell’impegno, esortandolo a suonare quotidianamente il pianoforte, con scarso successo. Tale padre sembra essere fiero della sua educazione, anche se non si accorge che il suo impegno professionale di architetto lo tiene distante dalla famiglia, non soltanto dalla propria, ma anche da quella di provenienza, con la quale non intrattiene buoni rapporti, soprattutto con suo padre. Abbiamo in sostanza la fotografia molto chiara di una famiglia borghese benestante, dove quello che conta è soprattutto la regola, mentre gli affetti, per quanto non manchino e siano supportati dalla moglie, restano sullo sfondo.

Ma ben presto la famiglia viene a sapere che il loro figlio Keita in realtà non è tale a livello biologico; per via di uno scambio in ospedale all’atto della nascita, il loro figlio di sangue è stato allevato ed educato da un’altra famiglia, del tutto diversa per condizioni sociali e culturali, e anch’essa si ritrova a sapere che il loro vero figlio è proprio Keita.

 

Le due famiglie, dopo la convocazione in ospedale, hanno poco tempo su come procedere, se lasciare tutto come prima o se avviare lo scambio definitivo dei loro legittimi bambini. A questo punto la regia si focalizza soprattutto sulla figura di Ryota, il padre architetto che, di fronte a tutta questa situazione problematica, deve fare i conti con se stesso, cercando di comprendere il suo ruolo di padre. In un primo momento, sicuro di sé, ingaggia un suo amico avvocato, non solo per vincere la causa contro l’ospedale, ma anche per verificare la possibilità di chiedere in adozione entrambi i bambini.

 

Nel frattempo le due famiglie si accordano per frequentarsi, e la bellezza del film sta anche nel far vedere la differenza tra le due famiglie: quella meno agiata, il cui padre è elettricista, è molto calda e affettiva, sa che cos’è il contatto fisico, i loro bambini sono sempre immersi nel gioco, e il loro padre si pone sullo stesso piano, correndo e facendosi strattonare allegramente di qua e di là; l’altra famiglia, invece, ricca e sofisticata, mantiene una certa distanza, e il padre, addirittura stanco di questi incontri, fa presente all’altro padre che oramai è meglio che dei due bambini si occupi la sua propria famiglia, dietro un compenso adeguato; ma il padre elettricista, che fino ad ora sembrava un bonaccione, ha uno scatto d’orgoglio, rispondendo veemente che i figli non sono merce.

A questo punto inizia una vera e propria introspezione da parte di Ryota, perché dopo quella dichiarazione infelice subisce la disapprovazione anche da parte di sua moglie. Ma su una cosa non vuole desistere: sul legame di sangue. In altre parole occorre che il suo figlio biologico torni nella propria famiglia, lasciando Keita al suo destino di stare con l’altra famiglia.

 

Si pone dunque la tematica che fa da legame mafinesto di altri sottotesti presenti in tutto il film: legami di sangue o legami concreti, affettivi, educativi? Il figlio è tale solo perché è sangue del proprio sangue nonostante non sia stato educato e amato dalla sua rispettiva famiglia, o perché invece è stato allevato, accudito ed educato dalla rispettiva famiglia, a prescindere che sia sangue del proprio sangue? La regia attraversa i dubbi che prendono spazio nell’interiorità del padre Ryota, mettendolo di fronte a se stesso, a come in realtà non sia stato finora un buon padre nei confronti di Keita, perché sempre immerso nella sua professione, fino ad accorgersi che deve dare una svolta alla sua esistenza, modificare la sua gerarchia di valori, e offrirsi alla vita vera, che non è soltanto biologica, ma è fatta di relazioni affettive, di presenza costante, rispettando le maturazioni che avvengono nel tempo, e che hanno bisogno di tempo, perché niente cala dall’alto secondo formule scientifiche e astratte, ma tutto sorge dal basso, con i suoi ritmi, le sue apparenti lentezze, e anche un bosco, per quanto artificiale, è pur sempre un bosco, che ha bisogno per il suo crescere, di tutto un mondo (la scena del bosco artificiale diventa dunque centrale per la presa di coscienza). Ecco che allora Ryota è nel pieno di una svolta, che mette in gioco anche il suo rapporto con la propria esistenza, con sua moglie, con i suoi genitori, con l’altra famiglia, e finalmente incontrerà se stesso nello sguardo di Keita.

 

E’ un film magistralmente diretto secondo una regia minimalista, sequenziale, che non evita di tratteggiare il mondo interiore con primi piani attraverso cui scorgere le sofferenze invisibili dei personaggi, i loro dubbi, ma seguendo una dinamica molto aderente al reale, intessuto da esistenze che si cercano e si ricomprendono per l’amore che devono riconquistare, proprio nel momento in cui era dato per scontato. In tutta questa ricerca introspettiva, radicata nel reale, il fattore essenziale è il tempo, inteso come dimensione concreta, che fa maturare gli eventi nella loro autenticità, e che proprio per questo, con il suo ritmo e le sue cadenze, è il valore per eccellenza che va rispettato, che diventa pertanto tradizione-in-avanti, in cui l’antico e il nuovo si rispecchiano nella comunanza della reciprocità, senza scorciatoie e senza rovesci, ma con l’umana consapevolezza che tutto è in tutto, nel suo divenire in relazioni e legami umani, che per essere vanno coltivati, seguendo, appunto, il ritmo tempo, al di là delle formule precostituite dell’intelligenza astratta. Un film all'insegna dell'umanesimo e della tradizione, in cui la tradizione, paradossalmente, finisce per diventare un'alternativa emancipata dal solido conservatorismo dell'efficienza a tutti i costi.

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